“Politica e ‘ndrangheta, è gia cominciata la Restaurazione”

25 novembre 2015 | 10:57
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“Politica e ‘ndrangheta, è gia cominciata la Restaurazione”

Sabrina Pignedoli, giornalista de Il Resto del Carlino e autrice di un libro sull’inchiesta Aemilia: “Se la ‘ndrangheta è presente da 32 anni e ha continuato a prosperare in Emilia vuol dire che gli imprenditori emiliani l’hanno fatta entrare, che hanno fatto affari con aziende collegate, che la politica è stata incapace o non ha voluto vedere”

REGGIO EMILIA – “Se la ‘ndrangheta è presente da 32 anni e ha continuato a prosperare in Emilia vuol dire che gli imprenditori emiliani l’hanno fatta entrare, che hanno fatto affari con aziende collegate, che la politica – dove non ha ricercato voti – è stata incapace o non ha voluto vedere”.

E ancora: “Mi sembra anche che ci sia una scarsa volontà di fare un serio esame di coscienza: in molti hanno esultato contenti che il proprio partito non sia finito nelle indagini. Beh, questo mi sembra l’atteggiamento più sbagliato per contrastare seriamente la criminalità organizzata. Se non ci sono responsabilità penali, sicuramente ce ne sono a livello politico che andrebbero affrontati. Invece è già cominciata la Restaurazione”.

Lo dice Sabrina Pignedoli, 31 anni, giornalista de Il Resto del Carlino e corrispondente da Reggio Emilia dell’Ansa, autrice del libro “Operazione Aemilia, come una cosca di ‘ndrangheta si è insediata al nord”. La giornalista, come riportano le carte del’indagine Aemilia, fu sottoposta anche a pressioni e minacce per non pubblicare notizie tra i risvolti dell’indagine della Dda di Bologna.

Domani alle 17, fra l’altro, la Cgil di Reggio Emilia organizza alla Camera del lavoro la presentazione del suo libro edito da Imprimatur. Discuteranno con l’autrice Vittorio Mete, ricercatore di Sociologia all’Università Magna Graecia di Catanzaro e Guido Mora, segretario della Camera del Lavoro di Reggio. Coordinerà il dibattito Matteo Alberini della segreteria della Camera del lavoro. Reggio Sera l’ha intervistata.

Quando ha iniziato ad occuparti di mafia e ‘ndrangheta?
Ho cominciato all’inizio nel 2010 a seguito di un’agenzia che parlava dell’operazione Pandora della Dda di Catanzaro, ma che riguardava anche alcuni reggiani. Sono riuscita ad avere l’ordinanza che mi sono letta: i collegamenti con Reggio erano moltissimi, c’erano persino persone uscite da un ristorante di Montecchio che parlavano di come uccidere una persona a colpi di bazooka. Mi sembrava assurdo, una realtà che non conoscevo e che da quel momento ho deciso di approfondire.

Le minacce. Da chi le sono arrivate e perché?
Le minacce per cui mi sono costituita parte civile nel processo Aemilia mi sono arrivate da un poliziotto (Domenico Mesiano, ndr), poi arrestato nell’indagine, che mi ha telefonato e mi ha detto con tono molto deciso di non scrivere più dei Muto, che erano sui cari amici e che altrimenti mi avrebbe tagliato i viveri. Il riferimento era a un articolo che avevo scritto sul ritiro delle armi ai figli di Antonio Muto, arrestato per associazione mafiosa. Della famiglia avevo già scritto per quel che riguarda la cena al ristorante “Antichi sapori” a cui aveva preso parte, tra gli altri, Giuseppe Pagliani con personaggi ritenuti referenti della cosca Grande Aracri.

Quali sono a suo parere le differenze fra la ‘ndrangheta calabrese e quella emiliana?
La ‘ndrangheta si è adattata alla realtà emiliana, dove punta soprattutto sul lato economico. Se al sud ha il controllo capillare del territorio, al nord una situazione del genere non sarebbe stata accettata. Per riuscire a entrare nell’economia e nella società emiliana gli uomini della cosca si sono mostrati come imprenditori di successo. Tuttavia la loro appartenenza alla criminalità organizzata, secondo gli inquirenti, era facilmente individuabile da coloro che vi entravano in contatto

L’inchiesta Aemilia colpisce perché numerosi sono i rapporti fra la ‘ndrangheta, i politici, gli imprenditori, i commercialisti e, addirittura, anche le forze dell’ordine. La mafia è quindi entrata nel nostro tessuto produttivo e sociale?
Nessun territorio è esente dalla penetrazione della ‘ndrangheta. Ed è proprio la ricerca della politica una delle caratteristiche peculiari dell’associazione mafiosa. Del resto la ‘ndrangheta non si insedia dove nessuno glielo permette. Se è presente da 32 anni e ha continuato a prosperare in Emilia vuol dire che imprenditori emiliani l’hanno fatta entrare, che hanno fatto affari con aziende collegate, che la politica – dove non ha ricercato voti – è stata incapace o non ha voluto vedere. Senza l’aiuto dei professionisti gli uomini considerati vicino alla cosca non sarebbero riusciti a mettere in piedi complesse operazioni finanziarie.

‘Ndrangheta e informazione. C’è un giornalista arrestato, Marco Gibertini, e c’è un capitolo dell’ordinanza addirittura dedicato a questo rapporto. Lei cosa ne pensa?
Per la prima volta una cosca presta molta attenzione all’opinione pubblica. Credo che questo sia nato soprattutto a seguito delle interdittive antimafia e dell’incapacità della cosca di intervenire con suoi referenti per fermarle. L’informazione appare sotto diversi aspetti nell’operazione Aemilia. Da un lato c’è la figura di Gibertini, considerato un uomo cerniera tra la cosca e gli imprenditori emiliani. Dall’altro c’è la volontà di fornire una propria versione pubblica: cercano interviste o indicono conferenze stampa (come ha fatto Bolognino in Veneto). Poi c’è l’informazione da zittire.

Si può parlare di un allarme ‘ndrangheta in Emilia?
Sono i numeri dell’operazione Aemilia a dirlo. Ben 117 arresti, di cui 54 per associazione mafiosa, circa 240 imputati a cui viene contestata anche l’aggravante di aver favorito l’associazione mafiosa. Accuse che dovranno essere tutte sostenute davanti a un giudice, però ritengo che si possa parlare di allarme.

A suo parere ci sono responsabilità anche nel mondo politico che non ha vigilato abbastanza su questi fenomeni?
Sicuramente la politica, e alcuni politici in particolare, non hanno svolto bene il loro ruolo. Se la ‘ndrangheta è qui da 32 anni e nessuno se n’è accorto ritengo che un problema serio di competenza e di capacità amministrativa ci sia. Mi sembra anche che ci sia una scarsa volontà di fare un serio esame di coscienza: in molti hanno esultato contenti che il proprio partito non sia finito nelle indagini. Beh, questo mi sembra l’atteggiamento più sbagliato per contrastare seriamente la criminalità organizzata. Se non ci sono responsabilità penali, sicuramente ce ne sono a livello politico che andrebbero affrontati. Invece è già cominciata la Restaurazione.

Marcello Coffrini e il caso Brescello. Crede che si possa parlare di sottovalutazione del fenomeno o c’è qualcosa di più a suo parere?
Ovviamente c’è qualcosa di più rispetto alle dichiarazioni del sindaco Marcello Coffrini su Francesco Grande Aracri: se le sue parole hanno attirato l’attenzione sul caso Brescello, sicuramente non sono state quelle a convincere il ministero a concedere la commissione d’indagine. Cosa ci sia ce lo diranno presto i commissari.

C’è un consigliere comunale e provinciale imputato, Giuseppe Pagliani, con un Comune e una Provincia che sono anche parte civile nel processo. E’ un bel cortocircuito istituzionale non crede?
Un cortocircuito istituzionale come, purtroppo, ce ne sono tanti in Italia. Forse Pagliani avrebbe fatto meglio ad astenersi dalla scena politica almeno fino alla decisione del primo grado. Ma se la norma prevede che lui possa stare lì, la decisione spetta a lui. Del resto mi sembra che, salvo Pierluigi Saccardi, nessuno dei consiglieri si sia curato molto della sua presenza nella doppia veste, anzi mi sembra che al suo ritorno sia stato ben accolto.