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Donne discriminate, ben 400 dimissioni nei primi tre anni di vita del figlio

17 ottobre 2017 | 10:31
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Donne discriminate, ben 400 dimissioni nei primi tre anni di vita del figlio

La Consigliera di parità Maria Mondelli: “Cassa integrazione a zero ore solo per chi era in maternità”

REGGIO EMILIA – La discriminazione delle donne sul lavoro può assumere davvero forme diverse: e a dimostrarlo è il caso di una crisi aziendale, raccontato dalla Consigliera di parità Maria Mondelli (foto), in cui il trattamento peggiorativo si concretizzava attraverso lo strumento degli ammortizzatori sociali. “Una azienda di Reggio Emilia a fronte del calo oggettivo di lavoro – racconta la consigliera Mondelli – chiede una cassa integrazione a rotazione per una decina di dipendenti, maschi e femmine. In realtà la cassa integrazione a zero ore viene fatta fare solo ad alcune donne in maternità, per la precisione tre”.

Inevitabile che le lavoratrici vadano allo scontro con i datori di lavoro: alla fine due di loro si accordano con le dimissioni a fronte di un risarcimento. La terza neo mamma, invece, si rivolge alla consigliera di parità. “Ho chiamato l’azienda per capire il motivo per cui solo alla signora venisse applicata la cassa integrazione a zero ore: mi rispondono che è un favore alla lavoratrice, che così avrebbe avuto più tempo per stare con i bambini”. La scelta invece sottendeva una discriminazione nei confronti della lavoratrice, che veniva tenuta a casa dal lavoro. La consigliera di parità chiede che la situazione venga modificata e preannuncia che in caso di mancato accordo si andrà di fronte al giudice.

“Ho chiesto che l’onere della cassa venisse suddiviso in modo egualitario tra i lavoratori: perché solo lei in cassa a zero ore?”. L’intesa però non si trova e si sta per andare in Tribunale. E qui accade un fatto grave: “La donna prima dell’udienza viene trasferita in un altro luogo di lavoro, dove non aveva mai operato, e le viene affidata una mansione che richiedeva un titolo di studio diverso dal suo, senza opportuno addestramento”.

Si va dunque in causa: nel giudizio di primo grado il giudice accoglie la versione dell’azienda, che sosteneva che la misura non fosse discriminatoria in quanto sarebbe andata incontro alle necessità della neo mamma. Ma la battaglia non si ferma qui. Viene presentato ricorso in secondo grado di appello. “La ricorrente nel frattempo era fortemente provata: il nuovo lavoro non era accettabile per lei, sia per condizioni generali, sia per gli elementi di rischio connessi alla sua nuova mansione”.

Alla fine si giunge ad una mediazione: “Si arrivati ad un accordo: la lavoratrice ha dato le dimissioni a fronte di un incentivo all’esodo. D’altra parte la situazione era così peggiorata che la stessa ricorrente aveva deciso di non poter più andare avanti in quella azienda”. Maria Mondelli spiega che questa situazione è piuttosto ricorrente nei casi di cui si è occupata: “Il datore di lavoro, di fronte ai ricorsi, crea un contesto di tensione tale da indurre la lavoratrice ad andare via piuttosto che a restare nel suo posto di lavoro”.

“Cassa integrazione a zero ore solo per chi era in maternità”
“L’ anno scorso, nella nostra provincia, sono state quasi 400 le donne volontariamente dimessesi entro il compimento dei 3 anni del figlio”. E’ questo il dato inquietante rivelato dalla consigliera di parità Maria Mondelli in una lettera ai giornali.

“È vero – spiega Mondelli – non ci sono più le odiose dimissioni in bianco, ma i modi per indurre una donna ad abbandonare il lavoro sono ancora tanti e per lo più subdoli. E il motivo principale perché una lavoratrice, considerata fino a quel momento utile e preziosa, diventi improvvisamente scomoda, un peso da cui liberarsi, è quasi sempre la maternità”.

“Non è tanto l’ astensione obbligatoria a spaventare i datori di lavoro – entra nel dettaglio Mondelli – quanto i congedi parentali: quei 6 mesi di astensione facoltativa, utilizzabili anche a ore, che vengono visti come un privilegio a cui una lavoratrice seria e attaccata al lavoro dovrebbe rinunciare. Se, come avviene in altri Paesi europei, ci fosse un obbligo – non una scelta – al loro utilizzo da parte dei padri, forse sarebbe più chiaro a tutti che accudire la prole non è un problema di donne, ma una responsabilità sociale. E forse sarebbe più facile per le aziende compiere quel salto culturale che finalmente le porti a pensare che fare figli, per un giovane lavoratore o una giovane lavoratrice, è da mettere nel conto come un evento lieto e normale”.

“Non va dimenticato che le lavoratrici in maternità sono a carico dell’ Inps e che la persona presa in sostituzione è titolare di un contratto a termine di durata pari all’ assenza per maternità che, dunque, si interrompe al rientro della titolare, senza particolari formalità”.