“Io, reggiano senza cittadinanza: votate sì per me al referendum”

Un giovane che ha visto la luce al Santa Maria Nuova: “Tante persone continuano a chiamarmi straniero, ma come è possibile se sono nato qua?”
REGGIO EMILIA – Ho paura delle parole che sento nel mio cuore. Ho paura di quello che vorrei dire e ho paura a dirlo con il mio nome e cognome. Non voglio offendere nessuno e non voglio generalizzare. Allo stesso modo non voglio nemmeno subire aggressioni, ci sono abituato ma non per questo fanno meno male.
Ho un approccio diverso a quello dei miei genitori con gli organi di informazione, loro rispettano quello che scrivete e non lo mettono in discussione. Io invece che sono cresciuto in un’altra epoca, forse ho letto meno giornali e guardato meno telegiornali, perché le notizie le leggo online spesso sui social network. E vedo il modo in cui certi titoli, certe parole, creano commenti e reazioni violente, che nessuno si mette a contrastare. Ed è anche di questa violenza che sono stanco.
Sono nato a Reggio Emilia e mi sento reggiano. Anche se tante persone continuano a chiamarmi straniero. E’ vero, non ho ancora la cittadinanza, ma come posso essere straniero se sono nato qua?
Vorrei dirvi come mi sento e perché provo paura delle parole che sento nel mio cuore.
Queste parole nascono da altre parole che sento ripetermi da anni, dagli sguardi che poi emettono commenti, dal fatto che le parole spesso mi fanno sentire diverso. “Parli bene l’italiano! E sai scriverlo anche bene!”. E ogni volta devo ringraziare, ma anche io sono nato al Santa Maria, perché mai non dovrei parlare o scrivere bene l’italiano?
“Sei così giovane e vuoi leggere Le città invisibili? Sei una mosca bianca”. Signor libraio, ho smesso di venire a comprare i libri da lei, perché le parole sono importanti e credo non sia casuale che le mosche debbano essere bianche per piacere e le pecore nere per essere ultime.
“Ci racconti come pregate dentro alle moschee qui a Reggio?”. Signora maestra, perchè ha dato per scontato di fronte a tutta la classe che io fossi musulmano e frequentassi la moschea? Ho finto di saperlo e le ho raccontato quello che voleva sentirsi dire. La mia famiglia non frequenta nessuna moschea e nessuna chiesa, ma nel paese dove i miei genitori sono nati ci sono tante persone cristiane e anche altre minoranze religiose.
“Tu che sei straniero. Voi che siete stranieri”. Questa l’ho sentita dire da tutti. Sono straniero, perché il colore della mia pelle non va bene? Perché i miei genitori provano a parlare in dialetto, ma non riescono a farlo perfettamente? Perché la maestra crede ancora che io sono musulmano? Perché quando hanno intervistato mia cugina al mercato, hanno scritto che è straniera anche se ha la cittadinanza italiana da quando ha compiuto cinque anni? Perché so parlare abbastanza bene quattro lingue? Da cosa si capisce che sono straniero? Anche i miei figli continueranno ad essere stranieri qui a Reggio Emilia?
Però non ci sono soltanto le parole, anche se queste fanno male. Ci sono le cose che vivi, e che ti fanno sentire che devi avere paura. Da bambino consideravo normale fare la fila in Questura insieme ai miei genitori. Ricordo la pioggia e l’umidità, il sole e il vento. Ricordo che allora mi piaceva, perché cercavo di indovinare le lingue che parlavano le altre famiglie, cercavo di immaginare da dove arrivassero. Poi sono cresciuto e quella fila stretta tra transenne mi ha fatto provare paura. Io mi sento reggiano, ma lì non mi sento trattato da reggiano.
Ho paura di avere iniziato ad odiare quello che ero, uno straniero. Perché lì ho iniziato a vedere gli occhi di chi era fuori dalla fila e guardava verso di noi come se fossimo tutti delinquenti. Non voglio generalizzare, ma a voi viene in mente un altro posto a Reggio dove ci sono le transenne e si passa il tempo sotto la pioggia, il sole o il vento senza che nessuno dica che è poco curato?
Ho paura anche dei documenti. Perché, con il passare degli anni, sembra che tutto sia un dono e non un diritto. Il momento in cui ti viene consegnato il permesso di soggiorno, che a molte persone serve anche per poter tornare a trovare pezzi di famiglia che vivono in altri paesi. Così come la cittadinanza. Ai miei genitori è arrivata quando io avevo già compiuto diciotto anni. Posso dire che mi sento italiano, ma che non lo sono ancora. Invece reggiano mi sento proprio. Ed è per questo che vorrei essere visto, pensato e “scritto” come reggiano.
Anche perché, a dirla tutta, quando andiamo in qualche ufficio a mio padre o mia madre continuano a chiedere: “Nazionalità?” e quando rispondono “Italiana” scrutano bene il documento come se si rimanesse stranieri per sempre. Anche se uno ha vissuto il 70% della sua vita in Italia, anche se è diventato cittadino italiano e anche se ha imparato pure a parlare il dialetto.
Ma oltre la paura c’è quello che sento di essere. Sento di essere reggiano, di essere nato al Santa Maria Nuova, aver giocato da bambino nel parco del Buco Magico, aver studiato in città. Forse non sono abbastanza reggiano perché preferisco la pizza all’erbazzone.
Ma in questo forse sono italiano. Anche se non ho ancora la cittadinanza. E non potrò votare al referendum che potrebbe fare sentire meno “straniera” la mia generazione.
Ho paura di queste parole e che siano pubbliche. Perché leggerò il silenzio che produrranno. Ma soprattutto ho paura dei titoli, del modo in cui si useranno parole come “accoglienza”, “stranieri”, “integrazione”. Oggi queste sono diventate “brutte parole”. Leggete i commenti che inondano i social network quando vengono condivise.
Io ho paura dell’odio. Della rabbia. Della violenza.
Ma al di là della paura resta il fatto che soltanto per il libraio sono una mosca bianca, vorrei dire che tutti i reggiani, di qualsiasi tonalità della propria cute, sia che parlino il dialetto o altre lingue del mondo, che siano cristiani, musulmani, atei o miscredenti abbiamo bisogno di ritrovare le parole di Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni … Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Reggiano senza cittadinanza (votate Sì anche per me al referendum se potete)