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“Stazione, il quartiere sembra una zattera alla deriva”

15 dicembre 2023 | 11:41
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“Stazione, il quartiere sembra una zattera alla deriva”

Andrea Paolella, professore Unimore da poco tornato a vivere nella sua città: “Accogliere migliaia di persone senza creare delle prospettive e concentrarle in tre strade non è multiculturalismo: è una resa, è non credere nel futuro”

REGGIO EMILIASono nato a Reggio Emilia nel 1984. Io ho vissuto all’estero per dieci anni (nove in Canada e uno in Austria) e sono tornato tre mesi fa a Reggio Emilia, dopo aver vinto un concorso come professore associato in chimica a Unimore. Sono ritornato in Italia con mia moglie e i miei tre bambini. Abitiamo in quella che era la mia casa d’infanzia, un appartamento al terzo piano di Via Umberto Ceva numero 8, nel quartiere della Stazione. Mia mamma è nata in questa casa. I miei nonni hanno comprato quell’appartamento ancora prima che venisse costruito nel 1954.

È bello per me pensare che quattro generazioni della mia famiglia abbiano vissuto questi muri. E sto pensando di lasciarli perché non penso che il mio quartiere, che amo tanto, sia un posto dove i bambini possano crescere bene. Davanti al distributore dell’Eni sotto casa è facile trovare dei drogati, i quali, nascosti all’ombra del grande pino, passano le ore senza essere mai disturbati.

Nei giorni di pioggia o di freddo, alcuni poi cercano rifugio nelle cantine del palazzo ed è garantito lo spavento quando si scendono le scale e si incontra uno di questi, senza denti che fumando crack nella penombra dice “tranquillo amico non chiamare police, vado via subito”. Io invece la polizia l’ ho chiamata sempre e ringrazio la questura per avermi ascoltato e almeno garantito un po’ di sicurezza nel mio palazzo. Il mio povero vicino di casa, che ha perso una gamba per il diabete, staziona ogni giorno davanti alle scale di Via Ceva 1 e lui è testimone di un grande via vai di giovani consumatori minorenni (di ottime famiglie reggiane) che comprano marijuana negli androni dei palazzi.

Via Tondelli non è certo meglio: altri drogati, molti sdentati, si nascondono tra le macchine parcheggiate e poi spesso iniziano dei litigi ed allora volano bottiglie e qualcuno con un monopattino scappa. I portici di viale IV Novembre sono bui anche nelle giornate di forte sole. Decine di giovani ragazzi passano il tempo appoggiati ai muri, per poi svegliarsi all’ improvviso, dileguarsi e cercare un altro muro. Lungo Via Eritrea non si riesce a camminare: gruppi di tossici e spacciatori sono sempre davanti ad un bar e un alimentari. I clienti in Mercedes e Bmwparcheggiano pochi minuti e si fanno lanciare le dosi dai finestrini. Le risse sono quotidiane: questo triangolo di Reggio Emilia delimitato tra viale Piave, via Eritrea e Viale IV Novembre sembra senza legge.

La notte poi è solo un via vai di fantasmi incappucciati con delle lattine in mano. La mattina, invece che da un gallo, si è svegliati di solito da un nigeriano che urla contro non si sa chi. Non è una percezione questo senso di insicurezza, è la realtà di chi vive qui. Non è vero che poi tutte i quartieri attorno alle stazioni siano terre di nessuno: basta solo farsi un giro a Vienna dove ha abitato per ritrovare un’ altra civiltà. Vienna poi è una città con alte percentuali di immigrazione. Qui da noi i cortili sono presi per orinatoi a cielo aperto, la raccolta differenziata è solo nominale: nei bidoni grandi e piccoli si trova di tutto. I bar della zona stazione sono gli unici senza tavolini fuori per evitare assembramenti pericolosi o sedie volare.

Si trova anche lì una fauna variegata di giovani che gioca alle macchinette e poi esce a fumare, rientra per giocare ed esce ancora a fumare, in un circolo vizioso che dura delle ore. Finché anche in quel caso, dei giovani non finiscono per litigare. I bar sono tutti luoghi bui e tristi, dove il caffè è solo un’occasione di attesa ma non d’incontro. Non è questo il quartiere che ricordo. Non è questa la tristezza che ricordo. Non è questo vivere in modo multietnico.

Io ho vissuto in Canada 9 anni, sono diventato canadese e sono aperto alle altre culture. Come scienziato ho lavorato con decine di nazionalità diverse. L’unico modo per fare coesione è avere progetti, avere un’ idea di futuro, sapere dove si sta andando. Non è solo un problema di ordine pubblico: certamente una presenza fissa di polizia ed esercito servirebbe a disincentivare le possibili risse quotidiane nelle nostre strade. Qui non ci sono idee, nessuno sa dove ci stiamo muovendo. L’Italia è sempre e solo guidata da amministratori dell’emergenze, che pensano all’oggi o a monetizzare un piccolo consenso domani.

Davanti ad un terremoto siamo i migliori al mondo a fare tendopoli ma i peggiori a ricostruire. Il dopodomani è un miraggio, quasi un lusso. Per quale motivo non si fa politica vera e attiva? Il quartiere sembra una zattera alla deriva senza comandi, trasportata dal vento e dalle scuse banali del tipo: è colpa del mondo che cambia. Io penso che a problemi difficili si debbano trovare delle idee creative. Io penso che come prima cosa bisognerebbe trasformare l’intero quartiere in una cittadella universitaria, comprando un poco alla volta le case all’ asta e dandole in mano agli studenti. Dai giovani non può che uscire qualcosa di buono.

Bisogna che l’Amministrazione e la Regione per prime trovino un progetto vero per questa parte di città. Investire sui giovani studenti sarebbe già una buona prima mossa. Si potrebbero avere centinaia di posti letto che vorrebbe dire portare un po’ di speranza. I negozi in questo quartiere hanno diverse vetrine rotte, basti pensare all’alimentari da via Eritrea che da mesi espone un vetro rotto che nessuno si forza di riparare.

Bisognerebbe cercare di spingere la riqualificazione di caseggiati abbandonati lungo viale IV Novembre e incentivare investimenti di privati. Io creerei la Chinatown: a Montreal, dove ho abitato 9 anni, la Chinatown era meta turistica: si trova in quartiere che scende dal plateau lungo Boulevard Saint Urbain verso il grande fiume San Lorenzo. Basterebbe lavorare in sinergia con la comunità cinese che è già nel quartiere ed abbellire il quartiere ad hoc. Perché no? Perché non sviluppare Reggio in una vera città multiculturale?

A proposito di edilizia popolare, io farei fare un giro ai nostri amministratori a Vienna: io ho abitato a Floridsdorf, in un quartiere che si trova al di là del Danubio, che ospitava il mio istituto di ricerca: l’Austrian Institute of Technology. Tutte le case popolari sono impeccabili e il tasso di immigrazione in quel distretto (21esimo) è altissimo. Non è certo un quartiere ricco ma è civile. In cosa sbagliamo? Esiste in Austria un controllo capillare di ogni casa, esistono dei registri che non si possono aggirare. Esiste soprattutto un piano: chi va ad abitare in Austria, dopo 2 anni ha diritto ad entrare in una casa popolare (di altissima qualità ripeto, probabilmente classe energetica A) secondo il GemaindeWohnung (https://wohnberatung-wien.at/wohnberatung/gemeindewohnungen) a degli affitti molto accessibili.

Le famiglie numerose sono facilitate. Nel quartiere poi ci sono diverse aree gioco per i bambini e i parchi sono veri luoghi di incontro. Vienna, non a caso, è la prima città al mondo per qualità della vita. Accogliere migliaia di persone senza creare delle prospettive e concentrarle in tre strade non è multiculturalismo: è una resa, è non credere nel futuro. Centinaia di giovani forti e in salute sono attirati da attività poco pulite o allo sfruttamento: ma è possibile perdere della gioventù così? Possibile che non esista niente da offrire? Questo meccanismo è stato forse creato per mantenere abitabili altre zone di Reggio mentre un quartiere resta fuori controllo. Chi mi legge, si chiederà: ma chi te l’ha fatto fare di ritornare a Reggio Emilia?

Io amo Reggio, amo la mia città e ho voluto far conoscere i nipoti ai nonni da vicino. Ho un passaporto canadese che posso sempre riutilizzare, ma ho deciso di tenermelo da parte per qualche tempo. Da quel poco che ho visto in questi mesi, esiste un pessimismo generalizzato che trovo a volta ingiustificabile. I reggiani si lamentano di tutto senza poter più riconoscere più la bellezza della propria città, senza immaginare un futuro, senza capire che la qualità della vita qui potrebbe essere veramente la migliore del mondo, ma ci vogliono progetti e amministratori lungimiranti.

Andrea Paolella, professore Unimore