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Fallimenti pilotati a catena, tre reggiani indagati

12 luglio 2023 | 15:05
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Fallimenti pilotati a catena, tre reggiani indagati

Sono residenti a Cavriago e Novellara: uno è finito in carcere, mentre per un altro è scattato l’obbligo di dimora

REGGIO EMILIA – Tre reggiani sono stati indagati in una operazione che la Finanza ha chiamato la “banda del buco” che era composta da “professionisti seriali” dei fallimenti. L’organizzazione criminale è stata sgominata dalla Guardia di Finanza di Bologna, su delega della Direzione distrettuale antimafia della Procura felsinea. Il sodalizio, attivo praticamente in tutta Italia, era specializzato nell’acquisire società in crisi ma dotate di apprezzabili asset, che venivano depredate e portato verso dei fallimenti.

Dei tre, tutti reggiani residenti a Cavriago e Novellara, uno è finito in carcere, mentre per un altro è scattato l’obbligo di dimora. Nei loro confronti sono anche scattati dei sequestri.

Sono in tutto 32 le persone denunciate – di cui 15 arrestate e 10 destinatarie di altre misure cautelari – tutte accusate di vari reati fallimentari e tributari e di riciclaggio di proventi illeciti, anche con l’aiuto di compiacenti cittadini cinesi. Gli uomini delle Fiamme Gialle hanno inoltre eseguito un decreto di sequestro preventivo di beni per 32 milioni e stanno eseguendo perquisizioni in Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia, Veneto, Toscana, Marche, Puglia, Campania, Calabria, Sicilia e a Roma.

Tutto è partito nel 2020 quando la consorteria è subentrata alla guida di un gruppo societario dell’hinterland bolognese (composto da una holding e altre 3 srl sottoposte al suo controllo) operante nei settori della dermo-cosmesi e della grande distribuzione organizzata con 32 supermercati dislocati nel nord Italia. Come appurato dai finazieri, nei confronti di queste società sono state effettuate “vere e proprie operazioni di sciacallaggio cagionandone dolosamente il dissesto e i fallimenti”.

Poco prima del fallimento, ad esempio, 25 punti vendita furono trasferiti a new-co riconducibili all’associazione pregiudicando, peraltro, la riscossione coattiva da parte dell’erario per 3,3 milioni di tributi. Agli indagati viene inoltre contestato di lucrare sulla gestione del personale, assunto e somministrato attraverso società di “comodo”, che hanno compensato i relativi contributi previdenziali e assistenziali e le ritenute sul lavoro dipendente, con crediti d’imposta fittizi per oltre 2 milioni.

Gli ingenti proventi illecitamente accumulati, secondo l’accusa, sono stati reinvestiti in nuove iniziative imprenditoriali (tra cui l’acquisto prosciuttificio del parmense) o trasferiti, per essere “ripuliti” a società italiane ed estere compiacenti sulla base di fatture false emesse ad hoc per giustificare i flussi finanziari. Tra queste spiccano tre “cartiere” con sede a Milano, amministrate da soggetti di etnia cinese irreperibili che, in meno di un anno, hanno emesso fatture false nei confronti di centinaia di imprese italiane realmente esistenti per 7 milioni e ricevuto bonifici sui propri conti aziendali per 11 milioni.

Per aggirare le norme antiriciclaggio le risorse finanziarie riconducibili a operazioni commerciali fittizie, una volta accreditate, venivano immediatamente trasferite in Cina, con contestuale retrocessione agli imprenditori italiani del contante di dubbia provenienza. Trait d’union tra i membri della consorteria e i soggetti asiatici, sono risultati essere due coniugi (l’una cinese, l’altro italiano) residenti nell’aretino e implicati anche in un florido giro di prostituzione di giovani connazionali della donna. Nell’ultimo periodo, secondo i militari delle Fiamme Gialle, il sodalizio aveva rivolto la sua attenzione su un nuovo “target”, ossia una storica società ittica sita nel tarantino dotata di un consistente patrimonio, ma sovraindebitata e in crisi di liquidità, ritenuta dagli inquirenti in procinto di essere “saccheggiata”.