Jacopo: “Noi transgender: cittadini di serie B”

23 giugno 2023 | 10:33
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Jacopo: “Noi transgender: cittadini di serie B”

Il vicepresidente di Arcigay: “Siamo stanchi di essere invisibili e che è il momento che anche le nostre esistenze siano riconosciute e rispettate da tutte e tutti”

REGGIO EMILIA – Jacopo Vanzini ha 27 anni, lavora come web designer per una agenzia di comunicazione, da sei anni sta aspettando una legge nazionale per avere il riconoscimento del cambio del nome sui documenti. E’ un attivista transgender e per questo si impegna in Arcigay Reggio dal 2017 ed è vicepresidente dell’associazione. E’ uno degli organizzatori e sarà una delle voci che si farà sentire dal palco del Remilia Pride domenica 25 giugno. Ci racconta in questa intervista della comunità trangender della città, quali sono le richieste e le aspirazioni.

Cosa vuol dire essere una persona transgender in Italia oggi?
Senza una legge che ci tuteli, ricordo che siamo circa 400mila in Italia, ad oggi dobbiamo attraversare a nostre spese percorsi burocratici lunghissimi e difficili, siamo de facto cittadini di serie B. Per essere riconosciuti dallo Stato con la nostra identità dobbiamo affrontare percorsi lunghi anni: guardate che non è solo la questione medica, ma quella del percorso psicologico e burocratico che demoralizza.

Cosa deve fare una persona trans per il cambiamento di genere?
I tempi sono a discrezione del servizio Ausl a cui ti rivolgi, ci sono protocolli differenti a seconda del centro. Questo è già un problema, sono pochi in Italia i centri per le persone transgender, so di amici che devono fare lunghissime tratte tutte le volte. Il primo passo è iniziare un percorso psicologico obbligatorio che serve per raccogliere delle evidenze che realmente attestino che sei una persona interessata al percorso, dopodiché questa diagnosi viene portata a un giudice. E’ un magistrato che dirà se potrai fare sia gli interventi chirurgici sia il cambio anagrafico del nome, può capitare che ci sia un rinvio per ulteriori “analisi”. E’ abbastanza umiliante. Per fare tutto questo ci vogliono di media dai quattro ai sette anni. Se invece si vuole la terapia ormonale dopo l’okay dello psicoterapeuta ci si può rivolgere a un endocrinologo capace e iniziare ad assumere gli ormoni che si prenderanno per tutta la vita. E’ quello che ad esempio sto facendo io.

Tutto questo percorso è a carico vostro?
Fino al 2020 sì, anche gli ormoni se venivano presi nelle farmacie ordinarie e non quelle ospedaliere, venivano pagati. Posso dirvi che il farmaco che prendo, che va preso ogni tre mesi, costa 170 euro a fiala. Oltre al costo degli ormoni ci sono i costi degli esami del sangue e delle visite endocrinologiche (almeno due volte all’anno). In Emilia-Romagna è gratuito da pochi anni il percorso psicologico nell’unico centro abilitato al percorso di transizione, che è a Bologna, sennò te lo paghi come ho fatto io e tanti altri. Non scordiamo i costi legali: la persona T deve pagarsi la perizia psicologica per la disforia di genere, che in realtà l’organizzazione mondiale dei medici ha tolto come malattia nel 2018, che costa almeno 500 euro. Poi deve pagare il suo avvocato dall’inizio della pratica fino alla sentenza, circa poco meno di un anno. Poi ci sono le operazioni chirurgiche, che non tutti fanno, che hanno costi importanti (diverse migliaia di euro) e tendenzialmente per una questione di costi, tempi di attesa e risultati finali, si fanno all’estero.

Tutto questo ti fa arrabbiare?
Sì, certo. Sicuramente vogliamo una riforma che preveda una tutela completa per le persone transgender, soprattutto che non ci renda dei casi patologici di ambito medico. Vorremmo veder riconosciuto il metodo del consenso informato come avviene in molti paesi europei, per noi l’autodeterminazione e la scelta della persona sul proprio corpo deve essere messa al centro. Oltre al tema dei soldi, che non tutti magari hanno, c’è il fatto che la tua affermazione di genere, ovvero di chi sei dalla nascita, avviene solo dopo l’okay di un giudice e di diversi medici.

Reggio Emilia, per usare lo slogan del Pride, è “un posto sicuro”?
Diciamo spesso che Reggio Emilia è una piccola isola felice, abbiamo anche vinto il terzo premio delle capitali europee dell’inclusione e della diversità, questo però non basta. Dobbiamo continuare a lavorare, fare formazione e sensibilizzazione sul tema, perché ancora oggi molte persone trans, anche a Reggio Emilia, fanno fatica ad accedere al mondo del lavoro e ricevono micro-aggressioni e umiliazioni in situazioni di vita quotidiana, in parte per pregiudizi, in parte per mancanza di formazione del personale, soprattutto in ambito scolastico, socio-sanitario e tra le forze dell’ordine.
Come Arcigay Reggio Emilia abbiamo lavorato e ci mettiamo sempre a disposizione per fare sensibilizzazione e formazione, in modo da facilitare l’accesso ai servizi per le persone transgender e assicurare anche a loro “un posto sicuro”. Nell’ultimo periodo sempre più realtà ci stanno contattando proprio per migliorare questi servizi, e questo ci dà speranza.

Che cosa chiedete alla politica? Cosa dirai dal palco del pride il 25 giugno?
Chiediamo una legge che permetta alle persone trans e non binarie di ottenere documenti conformi alla propria identità tramite un percorso di affermazione di genere basato sulla piena autodeterminazione, in modo da accedere al mondo del lavoro, scuola, sanità e servizi in generale senza che la burocrazia sia causa di ulteriori discriminazioni. Chiediamo, inoltre, una legge che ci tuteli e ci permetta di esprimere il nostro genere senza paura di essere aggrediti perché, ricordiamolo, l’Italia è il primo paese in Europa per omicidi di persone trans, e ha questo triste primato da 3 anni.
Dal palco del pride dirò che noi trasgender siamo stanchi di essere invisibili e che è il momento che anche le nostre esistenze siano riconosciute e rispettate da tutte e tutti.

D.L.D.