Zaki e Regeni, la Cappon: “L’Egitto ci ha presi in giro”

5 aprile 2022 | 15:53
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Zaki e Regeni, la Cappon: “L’Egitto ci ha presi in giro”

La giornalista Rai, a Reggio per presentare la graphic novel sullo studente egiziano sotto processo, ha detto: “Volevo squarciare un velo sulle storie dei 60mila perseguitati politici in carcere in Egitto”

REGGIO EMILIA – “Non abbiamo ottenuto niente. L’Egitto ci ha presi in giro. Patrick va in tribunale domani (oggi la sua udienza è stata nuovamente rinviata al 21 giugno, ndr) senza sapere cosa ne sarà di lui. Abbiamo ottenuto pochissimo su Zaki e poco su Regeni. Hanno vinto loro, gli egiziani”.

Lo ha dettoa Reggio Sera la giornalista Rai Laura Cappon ieri in città e ad Albinea per presentare la graphic novel “Patrick Zaki. Una storia egiziana” scritto insieme al disegnatore Gianluca Costantini. La Cappon, da anni attenta cronista delle vicende egiziane, ha trovato in Gianluca Costantini il disegnatore dell’immagine più diffusa di Patrick Zaki e il coautore perfetto per “Patrick Zaki. Una storia egiziana”, un’opera di graphic journalism realizzata in tempo reale, ricca di interviste e approfondimenti, destinata a fare discutere e riflettere (il disegno in apertura è di Gianluca Costantini).

Come ti è venuta l’idea di una graphic novel sul caso Zaki?
In televisione si parlava tantissimo di questo caso. Ho pensato subito che non era come gli altri. In Italia era entrato nelle case delle persone. La gente si stava affezionando a Patrick grazie al grande lavoro dell’università di Bologna. Ho pensato di usarlo come grimaldello per raccontare anche le storie degli altri perseguitati. Il vero titolo sarebbe “una storia tipicamente egiziana”. Sono 60mila i detenuti politici egiziani in carcere (su 120mila complessivi, ndr). Ho scritto a Gianluca Costantini e ho pensato subito alla graphic novel, perché lui faceva già grafiche ai miei pezzi sul Domani. Il linguaggio era quello giusto. Serviva un linguaggio diretto e qualcosa di empatico. In Italia, sul caso Zaki, si è vista una campagna per i diritti umani come non si assisteva da tempo. Far entrare il volto di Patrick nelle case degli italiani, significa far entrare la consapevolezza che noi facciamo affari con un regime sanguinario che sta dall’altra parte del nostro cortile che è il Mediterraneo.

Quello di Zaki è un esempio di graphic journalism. Non deve essere facile da realizzare, tecnicamente, per uno che è abituato a scrivere articoli o saggi. Come si trova un giornalista a lavorare in questo settore?
Mi sono affidata a Gianluca che mi ha mandato sceneggiature di altri suoi libri. Ho scelto quella che si adattava di più agli script televisivi che faccio quotidianamente. E’ una griglia a sei come Topolino. Ogni pagina ha sei riquadri. Nella griglia scrivevo cosa succedeva, che inquadratura ci dovevano essere e i dialoghi. Abbiamo fatto una ricerca fotografica enorme. Abbiamo usato molte foto di fotografi egiziani, i profili di Facebook per ricostruire la vita comune. Ci hanno aiutato anche le foto che ci siamo fatti dare dalla famiglia di Patrick e dagli amici. Ho fatto finta che fosse un lavoro televisivo. La magia di mandare una griglia e ricevere una tavola disegnata è una delle cose più belle che mi siano capitate. Mi dispiace che in Italia il graphic journalism sia visto con la puzza sotto il naso come una cosa di serie B.

Di cosa è accusato Zaki?
Patrick è stato accusato di cinque capi di accusa. Il più grave è concorso in associazione terroristica. Questo sulla base di dieci post che lui avrebbe scritto su un suo account Facebook che i suoi avvocati sostengono essere falso. Quando c’è stato il rinvio giudizio a settembre 2021 è uscita un’altra prova. Un articolo sulla condizione dei cristiani copti scritto nel 2019. Però Patrick è andato a processo con una parte soltanto di questi cinque capi di accusa. La difesa ha scoperto che le altre accuse sono ancora lì e non sono confluite nel processo in corso. Quindi non sono state archiviate. I dieci post su Facebook sono ancora lì e potrebbero essere la base di partenza per un altro processo.

cappon

Ci sono parallelismi con il caso Regeni?
Sono due casi diversi, ma hanno un filone in comune che è quello dell’atrocità e della paranoia del regime egiziano che arresta tutti e vede tutti come un pericolo. La repressione sale sempre di più e Zaki rappresenta la categoria degli accademici all’estero che sono stati definiti pericolosi dal regime. Chi va a studiare all’estero è visto come una minaccia.

Zaki ha visto il libro. Come lo ha trovato?
Lui è stato liberato l’8 dicembre del 2021 e il libro era in chiusura. Noi eravamo quasi in stampa e abbiamo dovuto approntare un piano di emergenza. Eravamo in attesa. Alla fine sono saltate le ultime quattro tavole che abbiamo rifatto in 40 ore. Il 20 dicembre eravamo pronti e lo abbiamo mandato a Patrick con il terrore. Se non gli piaceva cosa facevamo? Invece è stato molto carino. Ci ha scritto un pensiero molto bello sopra e si è fatto mandare una scatola di copie al Cairo perché tutti i personaggi ne volevano una.

Cosa resta delle primavere arabe? Sono state un momento di grande speranza e una ventata di democrazia. Si sente spesso dire che erano eterodirette. C’è persino chi ha nostalgia dei vecchi dittatori. Cosa resta di queste rivoluzioni?
Le rivoluzioni non sono processi così immediati. Non so cosa resta. Ora poco, ma non credo che sia un processo chiuso. Se dovessimo fare un bilancio oggi, vi direi che la Tunisia, che era il paese più virtuoso nella transizione democratica, ora è alla deriva. Ed era quella messa meglio. L’Egitto è piombato in una dittatura feroce. La Libia è dilaniata da una guerra civile. In Siria è rimasto Assad. La eterodirezione è una stupidata pazzesca. Basterebbe parlare con chi ha lottato per la libertà. C’è stata una diaspora di giovani, la parte migliore del paese che ha lasciato la propria casa per non finire in carcere. Una generazione traumatizzata. Era meglio Mubarak? Se chiedi a questi ragazzi ti diranno di no.

L’Egitto, la Libia, l’Algeria. Come bisognerebbe fare collimare la tutela dei diritti umani e civili con le nostre esigenze anche in campo energetico?
Il problema è quello di avere a che fare con le dittature senza mai chiedere niente indietro. Se sono un partner commerciale, su certe cose mi devi dare retta. Prendiamo il caso Regeni. Il Gup ha chiesto al governo italiano di cercare gli indirizzi degli imputati. Non si può fare un processo senza i domicili di queste persone a cui notificare gli atti. Alla prima udienza il giudice ha deciso che non si poteva procedere e il gup a gennaio ha detto al goveno di agire. La ministra Cartabia ha annunciato un viaggio al Cairo che non ha fatto. Questo significa incassare qualunqe cosa dai dittatori. Che possono solo peggiorare. Leggevo, in un’intervista, una persona che diceva che Putin vuole diventare il Gheddafi dell’Oriente. Al Sisi è pericolosissimo all’interno, ma poi può girare la propria pazzia fuori. Poi, certo, i rapporti commerciali sono inevitabili. Siamo andati in Algeria dove c’è una repressione in corso molto importante. Il ministro Di Maio e l’ad di Eni insieme. Almeno ci andassero separati. Poi andiamo in Egitto a chiedere aiuto. Questo vuol dire che la mia politica estera sono gli affari. Stiamo cadendo dalla padella nella brace. Sostituiamo un pazzo con altri due pazzi. Dobbiamo avere un equilibrio e dei parametri di comportamento. Quando ho visto la Germania sospendere il Nord Stream 2 e l’Europa reagire con le sanzioni ho pensato: “Era ora”. Ma avrei voluto vedere l’Europa agire prima e più spesso e non quando abbiamo una guerra sul davanzale. La politica estera italiana è veramente debole. Inoltre dovremmo avere una linea comune europea su certe questioni.