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Mafie, il pentito: “A Brescello i Grande Aracri erano capi nell’ombra”

14 febbraio 2022 | 15:51
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Mafie, il pentito: “A Brescello i Grande Aracri erano capi nell’ombra”

Cortese: “Francesco era la mente che tirava i fili di tutto”

REGGIO EMILIA – L’importante caratura criminale, il ruolo dominante negli affari della cosca, la grande capacità economica e il basso profilo tenuto per non destare l’attenzione di forze dell’ordine e magistratura. Sono gli elementi portanti dell’impianto accusatorio del processo “Grimilde” contro la ‘ndrangheta di Reggio Emilia, che vede come principali imputati Francesco Grande Aracri e i suoi figli Paolo, Salvatore e Rosita.

A confermarli è stamattina il collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese, già testimone chiave dei processi contro le cosche emiliane, chiamato a deporre dalla Dda di Bologna sulle attività della consorteria a Brescello e nella Bassa reggiana.
Cortese, 57 anni, è stato affiliato a 20 anni nel 1985, scalando “a colpi di omicidi” le gerarchie dell’organizzazione criminale fino al 2008, quando ha deciso di pentirsi perché “nauseato” da quel mondo che in gioventù lo aveva fatto sentire “un dio”. Al suo attivo ha la partecipazione ad 8 delitti – di cui si è autoaccusato – compresi quelli del 1992 nel reggiano di Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero.

Gli ultimi anni della sua “carriera”, dal 2005 al 2007, Cortese li ha trascorsi proprio a Reggio Emilia dove era venuto “non per mangiare prosciutto e parmigiano, ma per i soldi”, trovando poi il suo “eldorado”. Dapprima uomo di Antonio Dragone ucciso nel 2004, poi “fratello” e “braccio destro” del nuovo capo Nicolino Grande Aracri, Cortese colloca i suoi rapporti col fratello del boss Francesco Grande Aracri alla fine degli anni ’80 e lo descrive così: “Tirava i fili, era la mente che gestiva e organizzava tutto, ma lo faceva in penombra”. E ancora: “A Brescello Francesco e i suoi figli comandavano come noi comandavamo a Cutro e in più riuscivano anche a investire. Perché il problema della ‘ndrangheta non è fare soldi, di quelli ne ha a palate, ma poi investirli in altre attività”.

Racconta ancora Cortese: “Una volta Nicolino (Grande Aracri, ndr) mi disse che poteva stare anche 20 anni in galera, perché tanto tutti i suoi soldi erano gestiti dal fratello”. Francesco Grande Aracri, in aula, si è difeso dicendo di aver tagliato i ponti con i suoi familiari, ma per Cortese questo non è possibile: “Nella ‘ndrangheta non puoi ritirarti in buon ordine, si finisce uccisi, arrestati, o si rimane dentro per tutta la vita”. Il pentito spiega poi un meccanismo tipico del clan: “Quando un personaggio di spicco è attenzionato dalle forze dell’ordine rimane in penombra e manda avanti le nuove leve”.

Che a Brescello erano in particolare i figli di Francesco, Paolo e Salvatore Grande Aracri, quest’ultimo detto “il calamaro” per la sua indole tentacolare negli affari. Tra i business che erano gestiti all’epoca, ad esempio, la discoteca Italghisa di Reggio in cui Salvatore “era responsabile e supervisionava tutto, anche se ufficialmente non risultava”. Il collaboratore di giustizia porta in aula anche l’episodio di un tentativo di estorsione ad un esponente della famiglia Muto (con base a Gualtieri) che lui stesso voleva mettere in atto. “Avevo deciso che se non avesse pagato lo avrei gambizzato. Poi mi disse che lui versava già ai Grande Aracri: 5.000 euro al mese alla ‘zia Maria’ (soprannome di Giuseppina Mauro, moglie di Nicolino, ndr)”. Quindi, conclude Cortese, “non feci più nulla: andava bene così” (Fonte Dire).