Alceo Lipizer, l’ex calciatore granata che finì in un lager per una partita di pallone

26 gennaio 2022 | 09:30
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Alceo Lipizer, l’ex calciatore granata che finì in un lager per una partita di pallone

L’ex centrocampista fu deportato in un campo di concentramento in Baviera, insieme ai suoi compagni di squadra, dopo aver battuto i nazisti per sei a zero

REGGIO EMILIA – Alla vigilia del Giorno della Memoria, c’è una storia di settantotto anni fa, che ci racconta di un gruppo di calciatori italiani che vennero arrestati e deportati in un campo di concentramento nazista ‘rei’ di  aver battuto e sbeffeggiato sul campo gli avversari tedeschi. E’ la vicenda di Alceo Lipizer, giocatore della Reggiana per due stagioni nei primi anni ’50 del secolo scorso, che nel novembre 1944 venne deportato in un lager nazista in Baviera, ‘reo’ per aver sbeffeggiato i tedeschi dopo averli battuti durante i novanta minuti. Nel ricordo di tutte le vittime e i perseguitati dell’Olocausto perpetrato contro ebrei, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, dissidenti politici dei regimi nazifascisti, la storia di questo giocatore che in granata disputò trenta partite realizzando sette gol, può aiutare a capire e ricordare il clima di quei terribili anni.

L’EPOPEA DELLA FIUMANA
Lipizer nacque nel 1921 a Fiume, l’attuale città croata di Rijeka che allora era territorio italiano. Figlio di un commerciante di olio e pasta a sedici anni esordì con la squadra della sua città allora militante in serie C. Con la Fiumana, il centrocampista del Carnaro giocò cinque stagioni conquistando anche la cadetteria. Poi l’ingresso dell’Italia fascista in guerra pose fine momentaneamente alla sua carriera in B. Nel dicembre del 1941, dopo le prime otto giornate di campionato, dove aveva già realizzato due reti ed il 16 novembre aveva sfidato a Fiume anche la Reggiana (finì 1-1), partì per la base navale di Taranto. Anche in marina riuscì a scendere in campo,  firmando un contratto per il Taranto, che al tempo militava in serie C.

LAVORATORE PER LA TODT
Dopo l’8 settembre 1943, quando il Re Vittorio Emanuele III fuggì a Bari imbarcandosi dalla città abruzzese di Ortona, Lipizer compì il percorso inverso verso nord. Viene impiegato come lavoratore coatto dell’organizzazione tedesca Todt, dedita alla costruzione di fortificazioni per il Terzo Reich in tutti i territori occupati. Erano tutti tramite lavoratori forzati come lui o prigionieri di guerra. E’ lì, mentre l’orrore della guerra dilaniava l’Italia, che Lipizer trovò ancora spazio come calciatore. Con una rappresentativa fiumana gli venne concesso di partecipare alla “Coppa Deutscher Bereter”. Ma il finale di partita per lui ed i suoi compagni di squadra questa volta fu molto amaro.

NEL LAGER PER AVER UMILIATO I NAZISTI SUL CAMPO
I giocatori fiumani, con Lipizer protagonista assoluto insieme ad altri suoi ex compagni di squadra nella Fiumana come Bruno Quaresima (che aveva portato il Vicenza in serie A prima dello scoppio della guerra) e Nevio Scalamera, scendono in campo contro una formazione di atleti-soldato tedeschi. Finì con un micidiale ‘cappotto’ degli italiani che umiliarono la formazione di calciatori del Terzo Reich. Ma Alceo e gli altri giocatori, secondo i canoni nazisti, esagerarono nei festeggiamenti per la vittoria. Così indispettirono e insospettirono i terribili servizi di sicurezza nazista, che, per rappresaglia, decisero di arrestare tutti i giocatori. Era una gelida sera quella dell’8 novembre del 1944, quando terminato il turno di lavoro davanti agli uffici della Organizzazione Todt di Susak, Lipizer, Quaresima e Scalamera e gli altri lavoratori-giocatori di quella partita, con la sola ‘colpa’ di aver osato battere e sbeffeggiare i nazisti, trovarono ad aspettarli i militari tedeschi arrivati lì con un grande autocarro bestiame. Non ci fu neanche il tempo per salutare i propri cari. Vennero tutti deportati, caricati quegli stessi vagoni o autocarri che in quegli anni condussero verso la prigionia e la morte milioni di persone.

‘SCHIAVO DI HITLER’ IN BAVIERA
Quattro giorni dopo, sfiniti Alceo e gli altri prigionieri arrivarono in Germania a Mühldorf am Inn in Baviera. Era un sotto campo del terribile lager di Dachau. Lì insieme ad alcuni suoi ex compagni di squadra incontrarono molti prigionieri giuliani, russi, cechi  e francesi. Il giovane centrocampista era diventato ufficialmente uno ‘Schiavo di Hitler’. Unico modo per ritornare in Italia arruolarsi con l’esercito fascista della Repubblica sociale italiana , lo stato fantoccio di Mussolini riconosciuto solo da Germania, Giappone e Manciuria. Ma lui come gli altri dissero ‘No’.  Ai lavori forzati dovevano trasportare sassi e traversine per il potenziamento della linea ferroviaria Salisburgo-Monaco. Le condizioni di vita erano disastrose: igiene praticamente inesistente, freddo nelle baracche e alimentazione scarsissima.

Ci fu un giorno che rimase impresso per tutta la vita nella mente del giovane centrocampista. Lo avvertirono di recarsi al punto d’arrivo dei treni per ritirare un grande pacco. I genitori gli avevano spedito prodotti alimentari. Dopo il lavoro si incamminò, attraversando il vasto campo innevato al punto prestabilito. Ritirò il pacco e ritornò nelle baracche. Davanti alla luce di una candela aprì quanto inviato da Fiume. Ma rimase deluso. Dentro c’era solo una mela. Qualche nazista aveva rubato tutto. In quel luogo infernale, dove vigeva la legge disumanizzante del ‘si salvi chi può’ e in molti avevano abbandonato il senso di solidarietà tra internati, iniziarono a deriderlo. Quella scena – raccontano i libri che hanno ricostruito la sua storia e quelle di tanti altri calciatori ‘resistenti’ come ‘Cuori partigiani’ di Edoardo Molinellil , ‘Salvate il soldato pallone’ di Nicolò Mello o ‘Un calcio alla guerra’ di Davide Grassi e Mauro Raimondi) – lo segnò per lungo tempo.

LA LIBERAZIONE E IL RITORNO A FIUME
La mattina del 2 maggio 1945 le guardie delle SS e i ‘meister’ della organizzazione Todt non si presentarono al campo per portare al lavoro i loro ‘schiavi’. In Italia Mussolini era stato giustiziato da qualche giorno e la sera precedente la radio tedesca aveva dato la notizia che Hitler si era suicidato nel suo bunker a Berlino. Lipizer e gli altri prigionieri capirono di essere liberi. Dopo poco Alceo e gli altri internati fiumani, con mezzi di fortuna e dopo un viaggio da odissea che durò due settimane, ritornarono finalmente a casa.

IL SOGNO JUVENTUS E L’EROE DI COMO
Scoppiò la pace, ma Fiume era contesa tra Italia e Yugoslavia alla quale passerà nel 1947 con la Conferenza di  pace di Parigi, ma il giovane calciatore riprese il suo sogno. Aveva ventiquattro anni e si rimise le scarpette ai piedi. Il centrocampista offensivo toccò il cielo con un dito quando, il suo concittadino Nini Varglien, lo chiamò alla Juventus. Con i bianconeri rimase  per due stagioni, dove però non riuscì a sfondare. Dopo il suo esordio in serie A il 6 gennaio 1946 nella partita contro il Bologna, giocò sei partite in due anni nella Juventus poi venne ceduto al Como in serie B. In riva al lago la rinascita. Giocò quattro stagioni portando i lariani in A nel campionato 1948/49 e collezionò in totale 95 presenze realizzando ben 28 reti, delle quali dodici nell’anno della promozione in massima serie e dieci nel primo campionato di A.

L’ARRIVO ALLA REGGIANA
Lipizer arrivò in granata in serie C nell’anno della retrocessione in quarta serie per sospetto illecito sportivo. Il centrocampista ex deportato nei lager nazisti  esordì in maglia granata (allora non c’erano le sostituzioni) nel derby vinto 1-0 contro il Parma giocato al Mirabello il 16 novembre 1952 davanti a 8.000 spettatori. Poi andò a segno la giornata seguente nel derby contro il Piacenza terminato 2-2. In rete ancora nella partita giocata il 7 dicembre tra le mura amiche contro il Livorno ma persa 2-1 e sempre al Mirabello in un’altra sconfitta contro il Lecce per 2-1. Ci fu il suo zampino anche nella vittoria del 15 marzo 1953 in casa contro il Vigevano per 4-0. Una vittoria che anticipò di una settimana il ‘derby maledetto’ contro il Parma, dove l’ex centrocampista della Juve andò in campo con la maglia numero undici. I granata vinsero al Tardini 2-1,  ma vennero accusati da un dirigente dei crociati di aver tentato di corrompere gli avversari.

La giustizia sportiva punì la Reggiana con 20 punti di penalizzazione spedendola in quarta serie. Senza quel -20 si sarebbe salvata senza problemi. La stagione seguente in quarta serie, vide Lipizer al suo ultimo anno da calciatore professionista. Andò a segno al Mirabello contro l’Hellas Verona il 31 gennaio 1954 contribuendo alla vittoria per 4-2. Poi va ancora in gol nel 2-2 casalingo contro il Manerbio. L’ultimo squillo della sua carriera lo vide in rete sempre al Mirabello  nella vittoria per 6-1 contro il Crema il 4 aprile 1954. Con la Reggiana giocò trenta partite mettendo a segno sette reti. Si ritirò a trentatre anni. Non sentiva il calcio più il suo mondo. Dopo aver appeso le scarpe al chiodo, andò ad abitare a Trieste insieme a sua moglie, dove aprì una panetteria. In seguito si trasferì a Brunate in provincia di Como, nella terra che gli diede tanta gloria. Lì, per le sue gesta sportive, si sentiva amato e ricordato da tutti. Malato di Alzhaimer, si spense a Lecco il 4 settembre 1990 a soli sessantanove anni.