‘Ndrangheta a Brescello, la Dda batte sulle intestazioni fittizie

27 settembre 2021 | 16:11
Share0
‘Ndrangheta a Brescello, la Dda batte sulle intestazioni fittizie

Nel processo Grimilde focus sulla “Holding srls”

REGGIO EMILIA – Giostrarsi tra le numerose società che controllavano in modo occulto non era semplice per gli esponenti della famiglia Grande Aracri di Brescello (il padre Francesco e i figli Paolo e Salvatore), tutti ora accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso come affiliati alla ‘ndrangheta nel processo “Grimilde” di Reggio Emilia.

Emerge da un episodio rendicontato nell’udienza di oggi dal poliziotto Saverio Pescatore, commissario della squadra Mobile di Bologna e test chiave della Dda per aver svolto le indagini. I fatti si svolgono nel 2017 e ruotano intorno alla “Holding srls”, una società nata l’anno precedente con un capitale sociale di 500 euro e amministrata come unico responsabile da Gregorio Barberio. Si tratta di uno degli attuali imputati a cui si contesta di essersi sistematicamente intestato fittiziamente, negli ultimi 13 anni, quote delle aziende dei Grande Aracri per metterle a riparo da eventuali sequestri giudiziari (è il caso della “San Francisco srl” nel 2008 e della “Nusa Marmi” nel 2009, ndr).

In particolare ad agosto del 2017 la società Holding (con sede legale a Reggio ad un indirizzo dove risultarono delle case e con 15 dipendenti assunti contemporaneamente come manovali edili e addetti al confezionamento di generi alimentari) “eredito'” una commessa da 40.000 euro per la ristrutturazione di un immobile a Parma dalla “Viesse srl”. Era un’altra azienda riconducibile alla famiglia Grande Aracri – il dominus era Salvatore detto “il calamaro” per la sua indole tentacolare nei più disparati campi di attività – che risultava già “compromessa” dalle attenzioni delle forze dell’ordine.

A settembre di cinque anni fa, però, un banale controllo della Polizia locale di Parma sorprese sul cantiere Paolo Grande Aracri e il padre Francesco, fratello del boss di Cutro Nicolino “mano di gomma”, che dopo una condanna per mafia riportata agli inizi del 2000 faceva di tutto per restare lontano dai riflettori. Padre e figlio si presentarono come dipendenti della ditta che stava effettuando i lavori ma, alla domanda dei vigili su quale fosse il nome dell’azienda, si precipitarono al telefono per chiedere a Salvatore Grande Aracri cosa dovessero rispondere.

La scelta della famiglia fu di non “bruciare” la Holding e far comparire i nomi “scomodi” dei loro parenti tra i dipendenti della Viesse. Le assunzioni, sulla carta, furono poi regolarizzate pochi giorni dopo l’incidente con la complicità del commercialista Leonardo Villirillo, colletto bianco che, secondo le accuse, sarebbe stato “a disposizione” del clan per le questioni riguardanti le società gestite. Secondo Pescatore l’episodio conferma una volta di più “che la famiglia agiva come una cosa sola” e mette in evidenza la strategia dell’intestazione fittizia di beni che, dai primi anni 2000, serviva a mettere al riparo il patrimonio della cosca, riciclare denaro e “infiltrarsi nell’economia locale”. Tesi questa contestata dall’avvocato Pablo De Luca, difensore di Barberio, che ha domandato al testimone se avesse mai assistito “a riunioni tra i correi preordinate alla commissione dei reati che vengono contestati”, senza ricevere una risposta.

Lo stesso difensore ha poi sollevato un’eccezione – respinta dal giudice Giovanni Ghini – in ordine alla procura speciale assegnata all’avvocato di parte civile della Regione Alessandro Gamberini. Secondo De Luca, in sostanza, la delibera regionale che assegna l’incarico al legale farebbe riferimento al procedimento abbreviato del 2019 e non sarebbe valida per quello in corso. Sullo sfondo del processo resta infine la richiesta di astensione del giudice Ghini avanzata dal pubblico ministero Beatrice Ronchi, che lo ritiene incompatibile alla luce del fatto che ha già giudicato in un filone collegato ad “Aemilia bis” (cinque assoluzioni pronunciate nel 2020 dall’accusa di intestazioni fittizie) e in un processo del 2005 legato a “Edilpiovra” (per cinque imputati non fu riconosciuta l’associazione mafiosa) (Fonte Dire).