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Afghanistan, la Mannocchi: “I talebani non sono cambiati”

4 settembre 2021 | 15:29
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Afghanistan, la Mannocchi: “I talebani non sono cambiati”

La giornalista e scrittrice al festival di Emergency: “Non abbiamo il diritto di spaccare in due il mondo e dire: ‘Qui risiede il giusto e qui il non giusto'”

REGGIO EMILIA – “I talebani hanno interesse ad essere legittimati, perché hanno bisogno delle nostre ambasciate e del nostro denaro. Bisogna vedere qual è il costo sociale di tutto questo, perché io non credo che abbiano moderato la loro ideologia. Penso solo che l’abbiano resa più pragmatica e che stiano guardando al futuro, sapendo che devono costruire l’apparato narrativo di una nuova ideologia”.

La giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi, che ieri ha partecipato, all’interno del festival di Emergency in piazza Prampolini, al dibattito “Chi si prende cura dell’Afghanistan?”, non ha dubbi sulla reale natura dei nuovi padroni dell’Afghanistan. Testimone della caduta di Kabul, rientrata in Italia il 15 agosto scorso, ha potuto vivere le drammatiche ore dell’entrata dei talebani nella capitale afghana. Con lei, sul palco, Corrado Formigli, giornalista e conduttore televisivo e, in collegamento, Paolo Giordano, scrittore e Alberto Zanin, Medical Coordinator del Centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency a Kabul. Prima dell’inizio del dibattito è stato fatto vedere un filmato che ha ricordato Gino Strada, fondatore dell’associazione umanitaria recentemente scomparso.

“Aver preso quel volo è un fardello da cui non riesco a liberarmi”
Ha aggiunto la giornalista: “Sono in contatto con tutte le persone che abbiamo lasciato indietro. Per uno che abbiamo aiutato, a venti abbiamo dovuto dire: ‘Non ce l’abbiamo fatta’. Il senso di privilegio che ho sentito sulle spalle prendendo quel volo di evacuazione, mentre migliaia di persone assaltavano l’aeroporto impossibilitate ad entrare, è un fardello di cui, a distanza di due settimane, ancora fatico a liberarmi”.

La testimonianza di Zanin fra gli spari
Gli unici italiani in Afghanistan, al momento, sono quelli del personale di Emergency. Fra questi Alberto Zanin, coordinatore medico dell’ospedale di Kabul che si è collegato dalla capitale afghana mentre, in sottofondo, echeggiavano gli spari dei festeggiamenti per l’annuncio del nuovo governo o, forse, per l’annuncio della capitolazione del Panshir smentita poi dal Fronte nazionale della resistenza.

Ha detto Zanin: “A Kabul c’è una stabilizzazione rispetto alla settimana precedente. Il nostro ospedale in Panshir, invece, ospita decine di pazienti per via dei combattimenti. Emergency riesce ad operare qui da 20 anni, perché garantiamo cure a chiunque senza fare domande. La nostra neutralità ci permette di operare in contesti difficili. E’ un biglietto da visita che ci consente di essere presenti sul territorio. In Afghanistan la scarsità di accesso alle cure e un rallentamento della parte diagnostica delle malattie, fa sì che ci sia una grande mortalità per patologie che sarebbero facilmente curabili in Italia. Per esempio quelle del cuore, ma non solo. Gli interlocutori sono cambiati rispetto a prima, ma la cooperazione e la collaborazione e la volontà che Emergency faccia parte del programma di cura da parte dei nuovi interlocutori, è forte”. E ha concluso, parlando di Gino Strada: “Gino era un faro ed era uno in grado di tracciare bene il sentiero su cui stiamo camminando ancora adesso. Ma lui ha fatto di tutto perché la nostra organizzazione diventasse indipendente”.

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“Così i talebani hanno cooptato la popolazione locale”
La Mannocchi, rispondendo alla domanda del motivo per cui gli Usa non avessero capito che Kabul stava per cadere, ha detto: “Kabul è caduta molto prima di quanto fosse previsto da noi. Nelle due settimane che abbiamo vissuto in Afghanistan abbiamo visto delle istantanee di comportamenti che avevamo già notato in Iraq e in Libia. Mentre noi leggevamo articoli sulla debolezza dell’esercito afghano, quello che stava avvenendo, a livello locale, era un processo di cooptazione. I talebani, a cui noi abbiamo lasciato campo libero, non con gli accordi di Doha del 2020, ma a partire dal 2014 quando le missioni militari sono diventate non operative, si sono avvantaggiati del vuoto di controllo territoriale che, negli ultimi anni, ha permesso loro di arrivare in tutti i villaggi e di presentarsi come l’unica possibilità di sicurezza del territorio. In molte aree del paese i gruppi talebani arrivavano mettendosi d’accordo con le comunità. Dicevano loro: ‘Noi possiamo entrare combattendo e distruggendo il villaggio, oppure possiamo entrare mettendoci d’accordo. Nessuno si farà male e il territorio non verrà danneggiato’. La stragrande maggioranza dell’Afghanistan è fatta di questi villaggi e non dai centri urbani”.

“Abbiamo pensato che la polaroid di quello che, secondo noi funzionava, fosse la fotografia del paese”
E ancora: “Noi abbiamo sempre guardato ai centri urbani. Abbiamo creduto che quel 40 per cento di donne che sedeva in Parlamento, rappresentasse il Paese e che le giovani generazioni emancipate delle città, che pure ci sono e sono validissime, fossero il seme di una società civile solida. Invece non lo erano. Abbiamo pensato che la polaroid di quello che, secondo noi funzionava, fosse la fotografia del paese. Purtroppo, invece, non lo era”.

“Era impensabile che gli afghani arrivassero a una forma come la nostra di democrazia e civiltà”
Paolo Giordano aggiunge: “Sono stato in quel Paese nell’apice del conflitto armato, anche per gli italiani, nel 2010-2011. Ho vissuto la parte più operativa del conflitto nelle zone marginali, come la provincia del Gulistan. Ho ascoltato in agosto il tipo di conversazione pubblica che è stata fatta sull’Afghanistan che era concentrata su Kabul. Sembrava che facessimo sprofondare in un buco medievale un paese fortemente occidentalizzato. Ma questo era vero solo per alcune realtà che sono delle bolle in quel Paese. Il popolo in Afghanistan che ho visto, era impensabile che potesse arrivare a una forma come la nostra di democrazia e civiltà. Questa era l’impressione stessa dei nostri militari che stavano lì”.

L’accusa di un iracheno: “Ve ne siete andati nel 2011 senza una strategia per quel che sarebbe successo dopo”
La parola è poi tornata alla Mannocchi che ha detto: “Dopo la fine della guerra di Mosul stavo parlando con un ragazzo e ho fatto una riflessione sull’errore del 2003 e dell’invasione americana. Lui mi ha detto: ‘Voi pensate che il vostro principale errore sia stata l’invasione, ma invece è stato quando ve ne siete andati nel 2011 senza una strategia per quel che sarebbe successo dopo’. E’ esattamente quello che è successo in Afghanistan. Molte persone con cui ho parlato in Afghanistan si sono rese conto di quello che sarebbe successo già dopo gli accordi di Doha nel febbraio del 2020. Lì Trump ha concluso un accordo con i talebani, escludendo un governo di cui l’amministrazione Usa era stata sponsor. Gli afghani nel momento in cui l’amministrazione Trump ha invitato lì i talebani, ma non il governo di quel paese, hanno dedotto che quell’esecutivo aveva perso la sua legittimità. Questo ha fatto capire loro che i talebani avevano già vinto”.

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“Non abbiamo il diritto di spaccare in due il mondo e dire: ‘Qui risiede il giusto e qui il non giusto'”
Alla domanda se crede che i talebani dovranno tenere conto che l’Afghanistan è cambiato rispetto a 20 anni fa, la Mannocchi ha risposto: “Sono stati 20 anni di sfumature e contraddizioni che abbiamo colto solo parzialmente, perché abbiamo continuato a vedere quel Paese con i nostri occhiali occidentali e a pensare che la parola libertà e democrazia significassero la stessa cosa dappertutto. Invece non è così. Non abbiamo il diritto di spaccare in due il mondo e dire: ‘Qui risiede il giusto e qui il non giusto’. Su questo gli afghani che abbiamo incontrato in queste due settimane mi hanno insegnato molto. Un contadino sfollato da Kunduz mi ha detto: ‘E’ caduto un missile su casa mia e mi ha ammazzato il bestiame. Non mi interessa sapere se era dell’esercito o dei talebani. Io non ho più il mio bestiame e non so come vivere. Se a sistemare il muro arrivano i talebani o gli occidentali, poco mi cambia. Ridatami il mio bestiame. Noi non possiamo guardare, di questo Paese, solo gli studenti e le studentesse illuminate di Herat, le squadre di biciclette femminili e le donne che manifestano, perché sono un pezzo virtuoso eccezionale di quel paese, ma solo un pezzo. La persona con cui ho lavorato in queste settimane definiva i talebani ‘opposite group’. Io ci ho pensato a lungo domandomi perché e poi ho capito. La realtà che vede lui non è la realtà che vediamo noi, perché, se butta male, lui in quella realtà ci deve galleggiare e noi no. Questa complessità noi non l’abbiamo voluta vedere”.

“I talebani stanno mettendo una maschera”
E conclude: “I talebani stanno mettendo una maschera che fa comodo al prisma con cui noi li guardiamo. Il rischio grande è che loro si presentino non come nemici, ma nemmeno come amici. Oggi hanno interesse ad essere legittimati, perché hanno bisogno delle nostre ambasciate e del nostro denaro. Bisogna vedere qual è il costo sociale di tutto questo, perché io non credo che loro abbiano moderato la loro ideologia. Penso solo che l’abbiano resa più pragmatica e che stiano guardando al futuro, sapendo che devono costruire l’apparato narrativo di una nuova ideologia”.