Mafie |
Cronaca
/

Processo Grimilde, gli affari di famiglia dei Grande Aracri

5 luglio 2021 | 15:58
Share0
Processo Grimilde, gli affari di famiglia dei Grande Aracri

A Brescello intestazioni fittizie contro sequestri e per riciclare

REGGIO EMILIA – A riprova del fatto che si muovevano “come un gruppo unico” i Grande Aracri di Brescello facevano spesso tutto “in famiglia” per difendere i loro beni da sequestri giudiziari “ben più che probabili” o riciclare denaro di dubbia provenienza legale. Emblematico di questo modus operandi è uno dei retroscena emerso oggi dal processo Grimilde contro la ‘ndrangheta, che a Reggio Emilia vede tra i principali imputati Francesco Grande Aracri – fratello del boss di Cutro Nicolino- e i suoi figli Salvatore (condannato in abbreviato), Paolo e Rosita.

Si tratta di un’operazione immobiliare relativa a 5 villette costruite nel Comune sciolto per mafia nel 2016, illustrata dal testimone della Dda di Bologna Saverio Pescatore, e relativa a due capi imputazione del processo: intestazione fittizia di beni aggravata dal metodo mafioso e tentata truffa.

La vicenda degli immobili in via Breda Vignazzi 4 a Brescello inizia nel 2000, nel periodo in cui “l’accertata mafiosità” di Francesco Grande Aracri sarebbe stata di lì a poco confermata dalla sentenza di primo grado del processo Edilpiovra. E’ nel giugno di quell’anno, infatti, che il fratello 67enne del boss acquista il terreno (per 120 milioni di lire) su cui decide nel 2005 di costruire le villette.

L’anno prima, nel 2004, Francesco Grande Aracri era infatti stato scarcerato dopo un periodo di detenzione e, a seguito di una sentenza del febbraio 2005 della Corte d’Appello di Bologna (che la Procura generale avrebbe poi impugnato con successo in Cassazione), momentaneamente assolto dalle accuse di associazione mafiosa. Le villette a schiera furono costruite tra il 2006 e il 2007. L’appaltatore era la “Eurogrande Costruzioni” srl, azienda che nonostante il turn over formale dei soci è stata per gli inquirenti sempre riconducibile a Francesco Grande Aracri.

I lavori furono invece eseguiti da una ditta individuale che lo stesso cutrese aveva creato a suo nome e che, dal 2004 al 2012 ha avuto come sola committente la Eurogrande. In sintesi, spiega il commissario di Polizia Pescatore, “Francesco Grande Aracri, ha pagato se stesso con soldi suoi”. Lo conferma anche una prima anomalia riscontrata dagli investigatori, relativa al fatto che la ditta individuale esecutrice avrebbe richiesto il pagamento delle sue prestazioni non sulla base dell’avanzamento lavori come avviene di norma, ma solo al momento della vendita delle villette, aspettando in un caso 6 anni.

Non è tutto. Francesco Grande Aracri, che per un breve periodo si era ritenuto “intoccabile” dalla magistratura, capisce che le forze dell’ordine ne controllano ogni mossa. E nel 2007- prima di essere arrestato nuovamente e scontare una pena dal 2008 al 2010- vende tre delle villette realizzate dalle aziende di cui è il dominus occulto al figlio Salvatore, alla moglie di quest’ultimo cioè sua nuora Carmelina Passafaro, e alla figlia Rosita per evitarne la confisca. Gli acquirenti si rivolgono in banca per un mutuo e qui emergono altre incongruenze. In primo luogo, infatti, l’importo concesso supera il valore dell’immobile (quando è prassi creditizia erogare una cifra pari all’80%).

Inoltre gli istituti di credito concedono il mutuo senza batter ciglio, nonostante i richiedenti dichiarassero redditi “appena sopra la sussitenza”. Nel caso del nucleo familiare della coppia Salvatore Grande Aracri e Carmelina Passafaro, la differenza tra quanto avrebbero dovuto pagare (alla banca popolare di Verona) e quanto dichiarato, si aggirava intorno ai 200.000 euro. Eppure, è stato riscontrato, le rate del mutuo venivano regolarmente pagate, ma con sistemi non tracciabili: contanti e assegni fuori piazza.

Capitolo a parte riguarda poi una delle villette rimaste invendute, per cui Francesco Grande Aracri è accusato di truffa. Tentò infatti di incassare la somma del mutuo chiesto da due persone, che si presentarono fittiziamente come una coppia, esibendo inoltre alla banca una serie di documenti contraffatti. Tra questi quelli che attestavano falsamente che erano dipendenti di due aziende, ancora una volta riconducibili alla “famiglia”. (FONTE DIRE)