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Ivano Bordon: “Sono l’unico italiano vivente ad aver vinto la coppa del mondo due volte”

21 luglio 2021 | 16:28
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Ivano Bordon: “Sono l’unico italiano vivente ad aver vinto la coppa del mondo due volte”

L’ex portiere e campione del mondo ’82 e poi, di nuovo, nello staff del mondiale 2006: “Prima dei rigori diedi qualche suggerimento a Buffon. Andò bene, e mi ha aiutato a sentire quella coppa anche un po’ mia”

SAN MAURO A MARE (Forlì-Cesena) – Mentre l’Italia conquista l’Europa, in questa chiacchierata con Ivano Bordon (ex portiere e campione del mondo ’82) tocchiamo diverse tematiche in modo da scoprire non solo il lato sportivo, ma anche quello umano di uno dei protagonisti della storia del nostro calcio. Bordon (classe ’51), approdato all’Inter all’età di 15 anni, ha da subito assaporato il mondo del professionismo pur militando nelle giovanili, supportato da mentori del calibro di Gianni Invernizzi e Enea Masiero.

La fortuna di trovarsi poi al fianco di personaggi di spicco come Giacinto Facchetti, Tarcisio Burgnich, Gianfranco Bedin, Aristide Guarneri, Mario Corso, Luis Suàrez, lo ha reso ancor più forte professionalmente e umanamente. È la forza dello spogliatoio, dove grandi uomini fanno grandi le squadre. Per cinque stagioni Bordon ha avuto come allenatore all’Inter Eugenio Bersellini che, pur guidando una squadra vincente, non è riuscito a portare a casa un trofeo in ambito europeo.

Ivano Bordon si è comunque spesso trovato faccia a faccia con personaggi del calibro di Edson Arantes do Nascimento (più noto come Pelé), Diego Armando Maradona, Hendrik Johannes Cruijff. Grande la sua amicizia con Marcello Lippi, oggi uno tra i migliori allenatori in circolazione anche se, quando ancora giocava in campo, gli fece goal a San Siro.

Tutti noi ci formiamo un’opinione su persone che non conosciamo, basandoci quasi solo su ciò che i media dicono di loro. La sua biografia ci apre una finestra diversa, l’occasione di conoscere l’uomo che è, non quello che appare. Ma c’è qualche episodio, qualche persona su cui avrebbe voluto soffermarsi più di quanto concesso dai limiti editoriali?
Ho sempre risposto a chi mi chiedeva a quale persona, a quale allenatore sono rimasto più legato, che mi ha aiutato a crescere negli anni, facendo due nomi. Il primo è quello di Gianni Invernizzi, che mi ha scoperto vedendomi giocare al mio paese a Marghera (Venezia) e che poi diventò il mio allenatore nelle giovanili dell’Inter. In seguito sostituì Eriberto Herrera come allenatore della prima squadra e con lui vincemmo anche lo scudetto. L’altro è Eugenio Bersellini con il quale ho passato cinque anni all’Inter vincendo uno scudetto e due coppe Italia. Poi io mi trasferii alla Sampdoria e l’anno successivo mi raggiunse anche lui per vincere la prima coppa Italia della squadra genovese. Negli anni che trascorremmo insieme, abbiamo saputo costruire un legame molto forte, anche con la sua famiglia.

Lei ha contribuito come giocatore ad alzare al cielo la Coppa del Mondo nel 1982, per poi toccarla di nuovo nel 2006 in quanto parte dello staff tecnico della nazionale italiana. Sono emozioni diverse o il sapore della vittoria è sempre lo stesso?
Non sono emozioni molto diverse, sono entrambi momenti indimenticabili che ti fanno sentire migliore. Quella come calciatore l’ho vissuta dalla panchina, il titolare era Zoff, forse il miglior portiere di sempre, ma ho provato gli stessi sentimenti di chi ha avuto la fortuna di scendere in campo. Per un ragazzo come ero io all’epoca, arrivare in serie A, vincere lo scudetto e poi toccare il cielo vincendo il mondiale è stato il massimo. Una grande soddisfazione che provai anche nel 2006, come allenatore dei portieri. Vivevo intensamente ogni attimo di ogni singola partita, cercando di studiare ogni mossa delle squadre avversarie per poi disquisirne con i nostri portieri. Posso dire di avere la fortuna di essere l’unico italiano che ha vinto la coppa del mondo per due volte ed è ancora in vita, dato che chi l’ha conquistata nel 1934 e nel 1938 non c’è più. Il rapporto con Zoff è sempre stato ottimo, ma è una persona molto riservata e lo sento raramente. Come carattere è simile al mio, in quanto entrambi non amiamo le polemiche. Sarà perché Zoff è un friulano e io un veneto, due caratteri molti simili, ma non ci sono mai stati screzi o invidie tra di noi. Aggiungo anche che, se pure Zoff era di poche parole, per capirlo bastava solo guardarlo negli occhi per comprendere l‘aria che tirava. Recentemente siamo stati invitati dalla moglie di Paolo Rossi e ci siamo ritrovati quasi tutti, purtroppo senza il nostro Paolino. Paolo era una bellissima persona, un ragazzo solare, che sapeva scherzare e che come calciatore, ha saputo dimostrare una forza e una determinazione che pochi gli avrebbero attribuito. Con Enzo Bearzot il rapporto è stato ottimo, è lui che mi ha fatto esordire in nazionale nel ’78, in Spagna. Per questo restai sorpreso di scoprire via radio che non ero stato convocato per i mondiali dell’86. Non ci sentimmo più, sino a quando presenziammo alla partita di addio al calcio giocato di Antonio Cabrini, che si disputò a Cremona. Ricordo che stavamo facendo colazione, il match sarebbe andato in scena alla sera, e Bearzot fece il giro della tavolata per salutarci tutti. Quando mi si avvicinò, mi toccò la spalla e mi chiese “Sei ancora arrabbiato con me?” Io risposi di no e lui mi chiese comunque scusa. Mi spiace solo di non aver ribattuto a suo tempo alla sua decisione di non convocarmi, chiedendone le motivazioni. Cambiando argomento, mi viene in mente anche un particolare curioso. Nell’82 noi giocatori della nazionale scegliemmo il silenzio stampa, fummo criticati per questo, ma vincemmo il titolo. Nel 2006 invece, ci confrontammo con una stampa molto critica verso di noi, costringendo il bravo Lippi a impegnarsi per difenderci e sostenerci… e vincemmo il titolo. Forse la stampa è meno condizionante di quanto si creda. Mi ricordo anche di quando, prima dei rigori nella finale del 2006, diedi qualche suggerimento a Buffon. Andò bene, e mi ha aiutato a sentire quella coppa anche un po’ mia. Infine, mi lasci lo spazio per un ricordo del grande Gaetano Scirea, un nobile in campo e nella vita.

Nel suo libro “In presa alta” lei si sofferma sulla figura di sua moglie Elena. Ne fa un ritratto bellissimo e rimarca l’importanza di una vita privata felice nel conseguimento dei suoi successi. Pensa che questo possa rappresentare un messaggio per tutti gli sportivi e non solo?
Per i diretti interessati, i calciatori, penso che avere la tranquillità e la sicurezza in casa sia cosa basilare per poter essere in campo sempre sereno o meno preoccupato possibile. Con mia moglie abbiamo raggiunto i 47 anni di matrimonio. Elena è stata ed è importante per me in tutti gli ambiti, soprattutto in quei momenti di difficoltà, quando le cose non andavano nel migliore dei modi nel mio lavoro. La sua vicinanza, il suo modo di sapermi prendere è stato fondamentale. Ricordo una partita di Coppa contro il Real Madrid, quando ho fatto un errore che poi ha compromesso la qualificazione al torneo. Nonostante la pressione della stampa e della tifoseria, lei mi ha dato la serenità per poter continuare a vivere quello che era il mio modo di essere come calciatore. Devo ammettere che a volte non è semplice sopportarmi. Lei è il mio allenatore in casa, ma non per l’aspetto tecnico, bensì per quello morale. Adesso con internet e facebook sono un po’ cambiate le cose. Oggigiorno un calciatore e la propria compagna troppo spesso esprimono le loro sensazioni sui canali social, anziché disquisirne all’interno della famiglia, perché il mondo del calcio ora è così e se ci vuoi stare ti devi adattare. Ai miei tempi si viveva meglio. Per fare le interviste ad Appiano Gentile, i giornalisti aspettavano il termine dell’allenamento e ci si incontrava con domande e risposte. Ora, con le tv che ti assalgono alla fine di ogni partita, alla disperata ricerca della frase a effetto, un calciatore è costretto a districarsi in un’alluvione di domande a volte non facili e spesso maliziose se non apertamente polemiche. È vero, ormai l’ambiente è questo e ci si deve adattare, ma i social aggiungono quel di più di distrazione che mina la privacy di una famiglia, e vanno usati nel modo giusto, con attenzione, senza abusarne.

I grandi protagonisti di ogni storia, hanno sempre una loro nemesi, un avversario che più di altri ha saputo metterli in difficoltà. Qual è l’avversario che ha temuto più di tutti e perché?
Non posso che citare una bella coppia di attaccanti, i gemelli del goal Paolo Pulici e Francesco Graziani del Torino. Sono stato fortunato a non aver preso troppi goal da loro, ma erano così affiatati da poter mettere in difficoltà qualsiasi portiere. Ovviamente non scordo grandi campioni come Roberto Bettega, Bruno Giordano e Roberto Pruzzo. Tutti italiani e la prova che non è sempre necessario cercare il grande nome straniero per rafforzare una squadra.

Parlando in confidenza, qual è la scelta della sua vita che riletta oggi, non rifarebbe o farebbe in modo diverso?
Due cose soprattutto: come già detto prima, chiederei a Bearzot il motivo per cui non mi ha convocato ai mondiali dell’86. In quel frangente, anche perché pressato dai giornalisti, accusai il mister di non essersi comportato in modo onesto, e lui si offese per questa mia affermazione. Dopo lui si scusò, un po’ tardi, ma si scusò. L’altro fatto risale a quando giocavo con l’Inter. Sia io che Gabriele Oriali eravamo in periodo di svincolo ed entrambi venivamo corteggiati dalla Juventus. La dirigenza dell’Inter, però, si mise di traverso, temporeggiò facendoci immaginare il rinnovo del contratto… e fin quasi alla chiusura del mercato, quando dichiarò di avere altri programmi e ci invitò finalmente a cercare un’altra squadra. Eravamo stati semplicemente bloccati per impedirci di andare a rinforzare una squadra diretta concorrente per lo scudetto, e alla fine io mi ritrovai alla Sampdoria e Oriali alla Fiorentina. Dopo tutto ciò che io e Gabriele avevamo dato all’Inter forse ci meritavamo un trattamento migliore e oggi rimpiango di non aver avuto un contatto ancora più genuino con Mazzola e Beltrami, per potermeli trovare di fronte e rinfacciargli la loro ipocrisia. Certo, capisco il gioco delle Società, ma dopo i miei 17 anni all’Inter forse potevano comportarsi in modo diverso. Intendiamoci, alla Sampdoria sono stato benissimo. Ho trovato un presidente come Paolo Mantovani che si è rivelato sia un gran tifoso sia un intenditore di calcio, e ho scoperto un pubblico favoloso. Tre anni dove ho avuto l’onore di vincere il primo trofeo della storia blucerchiata, la Coppa Italia per club. Devo ammettere che in tutte le squadre dove ho militato, ho raccolto e ancora ricevo l’affetto dei tifosi, e questo mi gratifica di tutti gli sforzi profusi nel corso della mia carriera. Hanno capito che dietro il giocatore c’è sempre un uomo, ed è quest’ultimo che fa la differenza. Non sopporto vedere i giocatori che baciano la maglia e poi se ne vanno via anche dopo solo tre mesi. Vuol dire che non giocano per amore della squadra, ma per qualcosa d’altro. Non è più sport, è mercato.

Per concludere, lei è un nome famoso, un professionista rispettato e un protagonista della storia del calcio. Dica la verità, le è mai passata per la mente l’idea di scendere in politica?
No, è un mondo che non fa per me. Ho sempre preferito difendere i pali piuttosto che interessarmi troppo alla politica. Certo seguo le vicende della nostra società e sono cosciente delle difficoltà che attraversiamo e della necessità di avere le giuste soluzioni. Ma pur avendo le mie idee in merito, preferisco non esprimerle pubblicamente, è meglio così.