Aemilia, i giudici: “Iaquinta non fece nulla per riavere armi da padre”

15 giugno 2021 | 17:02
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Aemilia, i giudici: “Iaquinta non fece nulla per riavere armi da padre”

Per i giudici il padre del calciatore “aveva un ruolo fondamentale per il sodalizio”

REGGIO EMILIA – Le armi di Vincenzo Iaquinta, ex attaccante della Juventus e della Nazionale, “sono state detenute, quantomeno dall’agosto 2014, dal padre Giuseppe con piena consapevolezza e volontà” dell’ex calciatore, che “pur essendo stato avvisato dal genitore del trasferimento delle armi, benchè a cose fatte, nulla ha fatto per rimediare alla situazione di illiceità, concorrendo quindi con la sua condotta omissiva all’integrazione del reato e consentendo al padre di detenere illegittimamente le sue armi”. Lo si legge nelle motivazioni della sentenza d’appello del processo Aemilia.

Per queste ragioni, e sottolineando che Iaquinta “ha consentito la detenzione illegale di due armi da fuoco da parte di un soggetto al quale due anni prima era stata interdetta la detenzione”, la Corte d’appello di Bologna “ritiene che la pena di due anni di reclusione e 3.000 di multa inflitta dal primo giudice sia del tutto adeguata”. Da qui la conferma della condanna a Iaquinta nell’appello della tranche del processo Aemilia svoltasi con rito ordinario, sia pure con il riconoscimento della sospensione condizionale della pena.

Diverso il discorso per il padre dell’ex calciatore, Giuseppe Iaquinta, che pur vedendosi ridurre la pena a 13 anni dai 19 comminati dai giudici di primo grado ha visto confermata dal collegio presieduto da Alberto Pederiali l’accusa di associazione mafiosa. I giudici scrivono infatti che Iaquinta “è risultato essere un soggetto con un ruolo fondamentale per il sodalizio, rappresentando la figura dell’imprenditore di successo, oltre che padre di un calciatore famoso”, e che “consapevolmente si è prestato al sodalizio, consentendone l’infiltrazione nei settori economici e politici della zona in occasione di affari leciti o illeciti dell’associazione, talvolta anche avvantaggiandosene personalmente”.

In particolare, l’apporto di Giuseppe Iaquinta all’associazione ‘ndranghetista che operava in Emilia “era funzionale ad instaurare relazioni privilegiate con politici locali e con rappresentanti delle Forze dell’ordine, proprio per la sua apparente estraneità a contesti criminali”. Il fatto poi che Iaquinta “prendesse delle precauzioni, come evitare contatti telefonici diretti”, e che “partecipasse assiduamente a veri e propri summit di mafia con i sodali”, porta i giudici a respingere “l’assunto difensivo secondo il quale era vittima suo malgrado del contesto socio-culturale culturale in cui era inserito dalla nascita e della fama calcistica del figlio Vincenzo”.

In realtà, scrive la Corte, “proprio perché originario di Cutro ben conosceva il fenomeno ndranghetistico, e nonostante ciò manteneva rapporti stretti con soggetti di spicco del sodalizio come Nicolino Grande Aracri, Nicolino Sarcone, Romolo Villirillo, Antonio Muto e Alfonso Paolini”. Per i giudici, insomma, Iaquinta “non solo non ha eluso in alcun modo i contatti con i cutresi, ma anzi li ha stimolati per risolvere questioni personali” (Fonte Dire).