Aemilia, chiesta per Eugenio Sergio condanna a 17 anni e mezzo

10 luglio 2020 | 09:47
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Aemilia, chiesta per Eugenio Sergio condanna a 17 anni e mezzo

In primo grado ha avuto una pena detentiva a 23 anni. Si pente Maria Curcio, 47 anni, moglie di Giuseppe Giglio

REGGIO EMILIA – Sono solo due, ma entrambi piuttosto “pesanti”, gli imputati di cui si è discusso nell’udienza di giovedì 9 dell’appello del processo Aemilia, in corso nell’aula bunker del carcere bolognese della Dozza. La Procura generale del capoluogo emiliano ha infatti chiesto di condannare Gaetano Blasco ed Eugenio Sergio, già condannati in primo grado per vari reati, tra cui l’associazione mafiosa. Entrambi sarebbero uomini della cosca Grande Aracri.

Per entrambi la pena richiesta è inferiore rispetto a quella comminata in primo grado, a causa dell’unificazione dei riti abbreviato (con cui, in primo grado, è stata giudicata l’imputazione di associazione mafiosa) e ordinario. Per Blasco – imprenditore calabrese considerato uno degli esponenti di spicco della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna e condannato, in primo grado, a 38 anni e quattro mesi – la Procura generale ha quindi chiesto una pena di 25 anni e sei mesi complessivi, chiedendo comunque la conferma della condanna per tutti i reati contestati. Oltre che di associazione mafiosa, infatti, Blasco, difeso dagli avvocati Filippo Giunchedi e Marilena Facente, è accusato di tutta una serie di reati aggravati dal metodo mafioso, come incendi, estorsioni, usura e violazioni tributarie.

Discorso simile per Sergio. Venne condannato in primo grado a 23 anni complessivi per reati aggravati dal metodo mafioso. Per Sergio, rappresentato dall’avvocato Giuseppe Migale Ranieri, la pena richiesta dalla Procura generale è di 17 anni e sei mesi.

LA PRIMA PENTITA – E intanto si registra il pentimento di una donna di ‘ndrangheta. Si tratta di Maria Curcio, 47 anni, moglie di Giuseppe Giglio (diventato collaboratore di giustizia nel 2016) considerato la “mente economica” degli affari illeciti della cosca Grande Aracri in Emilia. La donna, secondo la sentenza di condanna del marito, risultava amministratrice e titolare di importanti quote nella galassia di società riconducibili al consorte; lei non nega. “Intendo ammettere gli addebiti che mi sono stati mossi nel presente processo e riconosco di avere posto in essere le condotte indicate nei capi di imputazione”, scrive in una lettera che i suoi legali hanno consegnato a mano al presidente della Corte d’Appello, Alberto Pederiali, che guida il collegio giudicante.

Datata il 28 febbraio e scritta in una “località protetta”,  la lettera illustra “alla Corte la nuova situazione nella quale attualmente mi trovo… persona ammessa allo speciale programma di protezione della legge 82 del 1991”, che tutela appunto i testimoni e i collaboratori di giustizia.

La donna  nel processo di primo grado a Reggio ha riportato una condanna a 5 anni e 6 mesi per distrazione di beni societari e intestazioni fittizie. La Procura generale ha chiesto la conferma della condanna e la difesa ha ribadito la richiesta di assoluzione.