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La Cgil: “Dopo 50 anni serve un nuovo statuto dei lavoratori”

19 maggio 2020 | 15:06
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La Cgil: “Dopo 50 anni serve un nuovo statuto dei lavoratori”

Scrive il segretario della Cgil, Ivano Bosco: “I diritti di chi lavora devono essere coniugati con una nuova sensibilità ambientale, con i nuovi orizzonti che la tecnologia ha fatto scoprire, con l’importanza di mantenere la pubblicità di alcuni servizi fondamentali (come la scuola e la sanità), con i tempi e ritmi di lavoro, la durata dell’orariodi lavoro stesso e la sua conciliazione con una formazione permanente”

REGGIO EMILIA – Il 20 maggio di cinquanta anni fa veniva definitivamente approvata dal Parlamento la L.300/70,da sempre poi conosciuta come “Statuto dei diritti dei lavoratori”.

Scrive il segretario della Cgil, Ivano Bosco: “Già dalla sua denominazione si intuisce un senso di particolare prestigio: si riconoscono finalmente ai lavoratori i principi secondo i quali non ci può essere un rapporto di lavoro, pur se subordinato, che limiti agli stessi i fondamenti inviolabili della Costituzione. Quella Costituzione che cita all’art.1 che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Eppure, furono necessari 24 anni prima che questo riconoscimento potesse avere il valore di legge. I primi anni della Repubblica non videro certo rispettati i dettami Costituzionali e furono innumerevoli le negazioni dei diritti sindacali sui posti di lavoro, i licenziamenti discriminatori, gli attacchi delle Forze dell’ordine alle manifestazioni dei lavoratori, provocando decine di morti tra chi rivendicava dignità e giusti salari.

La prima richiesta di “uno Statuto che portasse la Costituzione nelle fabbriche” fu avanzata da Giuseppe Di Vittorio nel 1952 al Congresso della CGIL di Napoli, ma come si evince, furono necessari anni di lotte per giungere al risultato.

L’esito positivo delle lotte del biennio 68/69 diede una spinta decisiva, tanto che il Parlamento riprese in mano il disegno di legge fino alla sua definitiva approvazione.
Venivano quindi normati contenuti di anni di battaglie: si riconoscevano ai lavoratori libertà di opinione, garanzie in caso di accertamenti sanitari sulla salute; veniva inserita una procedura per i provvedimenti disciplinari escludendo la discrezionalità aziendale, garantito il diritto allo studio ed istituite una serie di misure a tutela delle libertà sindacali: diritto a svolgere assemblee retribuite, costituire rappresentanze sindacali sui posti di lavoro, permessi retribuiti per svolgere tale attività e all’art.28 si definivano le disposizioni per reprimere la condotta antisindacale.

Continua Bosco: “Sicuramente il dibattito più acceso allora, ma che si è trascinato negli anni, è stato quello relativo all’articolo 18 e cioè a quell’articolo che sancisce il diritto al reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo. Un elemento di civiltà e di dignità, mai troppo digerito da parte datoriale e da molta politica. Negli ultimi 20 anni un po’ tutti i Governi si sono esercitati nel tentativo di abolirlo”.

Spiega il segretario della Cgil: “Il colpo definitivo riuscì però al Governo Renzi nel 2015 che, con la promulgazione del Jobs act, congelava tutte le tutele previste per i contratti stipulati dopo tale data. Anche per questo, per rispondere ai continui attacchi tesi a smantellare le conquiste costate lotte e sacrifici, la Cgil ha presentato al Parlamento una proposta di legge per l’approvazione di un Nuovo Statuto dei Diritti delle Lavoratrici e dei lavoratori”.

Un Nuovo Statuto, che rispondesse ai cambiamenti intervenuti nel tempo, perché il mondo e il lavoro dal 1970 sono cambiati. Sono nate nuove figure, per rispondere ad un mercato che richiedeva sempre più flessibilità, precarie, senza diritti, senza certezze normative e salariali. Insomma si è proceduto, passo dopo passo, ad una deregolamentazione sempre più spinta.

Dice Bosco: “Ciò che ha guidato la proposta della Cgil è il principio inderogabile per cui devono continuare ad esistere, e ad essere esercitati, diritti per qualunque tipo di lavoro. Diritti che hanno caratteristica universale: ferie, malattia, formazione, maternità, sicurezza, dignità della retribuzione, ristabilimento della giusta causa e giustificato motivo in per determinare un licenziamento. E tutto ciò deve valere per tutti coloro che lavorano, a prescindere dalle dimensioni aziendali e dai fantasiosi rapporti di lavoro che abbiamo conosciuto in questi anni e che vanno drasticamente ridotti. E’ forte l’urgenza di ripristinare la correttezza di alcuni termini che l’ubriacatura del mercato e del liberismo ha fatto dimenticare: non parliamo di privilegi, ma di diritti e dignità della persona e del lavoratore”.

Scrive il segretario Cgil: “Il cinquantesimo anniversario dello Statuto dei diritti dei lavoratori cade in un periodo molto complicato per tutti. La sospensione, causa pandemia, di molti diritti ha sospeso anche molte delle libertà sindacali, rendendo i lavoratori ancora più deboli. Ma ogni cosa intorno a noi si è mostrata più debole di quanto pensavamo: abbiamo maturato la certezza di non avere certezze. La consapevolezza di dover uscire da questa crisi progettando un mondo diverso sembrerebbe essere diventata patrimonio (quasi) comune. Finora si è pensato ad introdurre misure difensive, ora è opportuno si inizi a progettare un nuovo modo di vivere e lavorare; niente a che vedere con le varie fasi 1, 2 o 3”.

Conclude Bosco: “I diritti di chi lavora devono essere coniugati con una nuova sensibilità ambientale, con i nuovi orizzonti che la tecnologia ha fatto improvvisamente scoprire anche a chi ne era digiuno, con l’importanza di mantenere la pubblicità di alcuni servizi fondamentali (come la scuola e la sanità), con i tempi e ritmi di lavoro, la durata dell’orario di lavoro stesso e la sua conciliazione con una formazione permanente, infine con il coinvolgimento di chi lavora nelle scelte strategiche. È evidente che se si vuole dare veramente una svolta a questo nostro nodo di stare al mondo, che abbiamo scoperto non essere poi così perfetto, lo si deve fare investendo sì capitali, ma investendo anche sul valore delle persone, rinnovando l’economia, il modello produttivo e ridando nuovo valore ai diritti di chi fa stare in piedi tutto ciò, come questa crisi ha dimostrato e cinquanta anni non hanno fatto certo passare di moda”.