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Coronavirus, la storia di Alessia: “Così ho sconfitto il Mostro”

4 maggio 2020 | 18:34
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Coronavirus, la storia di Alessia: “Così ho sconfitto il Mostro”

Una Oss madre di tre figli che è sopravvissuta al virus: “Ho visto i miei vecchietti morire uno dopo l’altro e poi è toccato a me. Abbiamo il dovere di prenderci cura l’uno dell’altro, rispettando scrupolosamente molte piccole nuove regole del quotidiano. Non si fermerà se non lo fermiamo noi”

REGGIO EMILIARiceviamo e volentieri pubblichiamo la toccante testimonianza di una operatrice socio sanitaria, Alessia, che lavora in una casa di riposo ed è rimasta contagiata dal Coronavirus, raccolta da un’amica, Silvia Bonicelli.

Il 9 marzo, come ogni giorno, porto i miei figli dai nonni per andare al lavoro, ma i bambini, si sa, le cose le sentono, le sanno, le vivono sotto la pelle e noi mamme, chissà perché, questo “sotto la pelle” lo abbiamo intrinseco a loro. Samuel, il più grande dei tre, mi si lancia al collo e mi chiede di non andarmene e di restare lì a casa con lui, che vuole la mamma con sé.

Io gli spiego che, come sempre, sarei tornata e lo avrei riempito di baci, ma che ci sono dei nonni che mi aspettano e non posso lasciarli soli. Così mi chiudo la porta alle spalle, salgo in macchina, stringo forte le mani al volante, accendo la radio e parto, come ogni giorno, per andare al lavoro, sentendo ancora l’abbraccio del mio bambino stretto a me.

Quel 9 marzo non sapevo che sarebbe stato l’inizio di un incubo. Quindi, con semplici gesti di quotidianità, arrivo al lavoro, parcheggio nel solito posto, entro nella casa di riposo dove lavoro. Sì, perché, oltre a essere una donna una mamma e un’amica, sono un Oss (operatore socio sanitario), ovvero quella categoria che ha combattuto e combatte con il “Mostro”.

Entro nella nostra saletta e l’aria è davvero pesante. Le mie colleghe, amiche, hanno gli occhi gonfi e rossi, dai lineamenti del viso non sembra trapelare nulla di buono. Filomena, la più anziana del gruppo, inizia a raccontare e il terrore prende il sopravvento. Il virus è arrivato dentro la struttura che, fino a quel momento, aveva custodito quelle fragili vite.

Una decina di pazienti presentano i sintomi fino ad ora sentiti solo alla televisione: febbre alta, tosse, affaticamento respiratorio. Nella mia clinica per anziani, la mia seconda casa, quel luogo in cui ogni giorno ho a che fare con tante vite con storie con emozioni, con occhi che chiedono speranza e attenzioni, deboli e raggrinzite mani che cercano conforto, proprio quelle mani che dovrò smettere di accarezzare.

Dopo un lungo confronto ed esserci esaminate attentamente iniziamo, con un nodo alla gola, a rendere più possibile sicuro il nostro posto di lavoro e la vita di questi pazienti, ma ci rendiamo immediatamente conto che, in realtà, non si è mai pronti ad un avvenimento del genere. Nemmeno in un luogo dove la sicurezza del paziente è al primo posto. Cosi creiamo prontamente un intero reparto epidemico, con tutti quei pazienti che presentano sintomi.

Avete idea di che cosa voglia dire avere la responsabilità di un corpo, di un’anima di una persona? Sentire dentro la mente e in fondo al cuore la costante paura di potere, per errore, fermare la vita di qualcuno? Proprio quel qualcuno che a te l’ha affidata? Sigilliamo le porte di questo nuovo reparto con pannelli di allpak, contenitori speciali per rifiuti sanitari infetti, allestiamo tavoli con guanti, igienizzanti mani e disinfettanti di ogni genere.

Mi sento distrutta fisicamente e psicologicamente. Avrei dovuto finire alle 20 ma sono già le 23.30. Mentre sfilo i guanti mi raffiorano alla mente gli occhioni scuri del mio bimbo che mi aspetta e penso che starà già dormendo. Tolgo la mascherina, il camice, mi lavo e mi igienizzo dalla testa ai piedi nella maniera più scrupolosa possibile, saluto le colleghe e mi accingo ad uscire quando vengo fermata dalla responsabile e dal medico di struttura che, con uno sguardo amareggiato, mi consigliano di non entrare assolutamente in contatto con i miei bambini per non esporli a nessun rischio.

Così i miei occhi si riempiono di lacrime, crollo sulla sedia e, solo in quel momento, realizzo che sarebbe iniziato da lì a poco, per me, un periodo alquanto complicato. Come se non fosse abbastanza ciò che avevo superato nell’ultimo anno, proprio ora, che dopo un lungo periodo avevo ripreso in mano la mia vita decidendo a 33 anni di ripartire da sola con tre figli, perché oltre a essere un Oss e una madre sono anche una donna con le mie paure, incertezze pensieri e timori, avverto il mio ex compagno e i miei genitori che non posso assolutamente avere contatto con loro e i bimbi. Salgo in macchina in lacrime e mi dirigo in quella casa così improvvisamente silenziosa e vuota che mi farà compagnia per i prossimi 50 giorni.

Il 12 marzo l’esito dei primi tamponi ai pazienti isolati: tutti positivi. E così, dal 13 marzo, inizia la mia prima parte di quarantena. Essendo un’operatrice sanitaria posso lavorare, ma solo esclusivamente lavorare. Nessun contatto con estranei, che poi tanto estranei non erano, perché erano i miei figli, i miei genitori, la mia vita, ma il rischio è ovvio. Quindi nessun contatto. Quel lavoro che prima tanto amavo e che era la mia seconda casa, si trasformerà in seguito in un incubo giornaliero.

E così giorno dopo giorno, ora dopo ora, fragili e vissuti corpi ci lasciano. I corpi di quei nonni che ogni giorno, senza accorgersene, ci regalavano amore, storie, lezioni di vita, aneddoti semplici in un mondo complesso, quelli a cui bastava una dolce carezza, un sorriso semplice, un abbraccio affettuoso, se ne vanno soli in quel letto bianco, con gli occhi pieni di lacrime. Noi inermi, disarmati da questo “Mostro”, appoggiati ad una porta con i nostri lunghi camici e quelle scomode mascherine, non possiamo che restare a guardare le loro anima scivolare via.

Il 19 marzo il primo giorno di riposo. Dovevo solo staccare, riposarmi, alleggerirmi dal peso di quelle interminabili giornate. Invece no. Apro gli occhi e non sto per nulla bene. Misuro subito la temperatura corporea. La febbre non c’è, ma fatico a deglutire e la gola brucia terribilmente. Così chiamo il medico che mi vieta assolutamente di andare al lavoro e mi mette a contatto con l’igiene pubblica e, da lì in poi, ogni giorno, un signore molto molto gentile mi chiama e si occupa di me telefonicamente, perché ora il mio isolamento è, a tutti gli effetti, una quarantena.

Così tiene monitorati i sintomi che, nel giro di pochi giorni, peggiorano drasticamente e, come succede ai miei vecchietti, il fiato inizia a essere sempre più corto, diventa doloroso anche solo compiere un gesto così semplice e naturale come quello di respirare, non sento più nessun sapore, nessun odore, sono stanca e voglio dormire, nient’altro che dormire, sono talmente provata che solo nel sonno trovo la pace.

Passo così 8 lunghi interminabili giorni in cui, stremata, affronto totalmente sola quelle giornate. I ricordi non sono limpidi perché li passavo per lo più assopita, mi sedevo solo per chiamare i bambini, perché in questo calvario, oltre ad essere un Oss, ero una donna e una madre che, da ben 19 giorni, non poteva sentire le urla dei gemelli vicino, sentirli ridere in un abbraccio, non poteva amarli come solo una mamma può fare. Loro, così piccini: Samuel 5 anni e 2 gemellini si trovano così, all’improvviso, senza la loro mamma.

Dal nono giorno comincio ad avere più forza, torno a gustare un piatto di pasta e ritorno a sentire il profumo della mia casa. Così penso che sia tutto finito e invece no. Per riprendere a respirare, a non dormire continuamente e a gustare interamente quel piatto di pasta ci metto un altro mese. E’ duro, è davvero duro da uccidere il “Mostro” e, se il tuo corpo non è abbastanza forte, stai certo che sarà lui ad uccidere te.

A me è andata bene, ma in questo mese ho visto ben 24 nonnetti andarsene, lasciare i loro cari, senza poterli abbracciare, senza poter dire addio ai nipoti, senza guardare negli occhi i loro amati, senza salutare per l’ultima volta i propri figli con un bacio sulla fronte. Un gesto così semplice, ma che loro non hanno potuto avere. Ma vi assicuro che in questo mese e mezzo della mia vita l’unico complotto era quello che dentro me mi dava la forza di non mollare, fisicamente e nemmeno mentalmente.

Ora che cucino quella pasta per i miei bambini, oggi che Samuele mi si aggrappa al collo, ora che guardo con estremo amore gli occhi del mio nuovo compagno, ripenso, tra una lacrima e un dolce sorriso, alla dolce Fischietta, una delle anziane a cui ero più legata. Lei, che con l’immenso amore per suo marito, mi aveva fatto ritrovare questo splendido sentimento. Lui che, con mano tremante, le accarezzava dolcemente il volto. Loro che passeggiavano tenendosi la mano nei lunghi corridoi della loro “nuova casa”. Loro che il “Mostro” lo hanno combattuto assieme.

Ora sono qui con i gemellini e il mio Samuel. Posso dire di avercela fatta, di aver sconfitto nel dolore e con gli occhi pieni di terrore il “Mostro”. Quindi, a chi parla di complotto, di dati falsati, di strategie dall’alto, dico no. Lui esiste, purtroppo è lì fuori e noi, con amore e responsabilità, abbiamo il dovere di prenderci cura l’uno dell’altro, rispettando scrupolosamente molte piccole nuove regole del quotidiano, perché il “Mostro” non si fermerà se non lo fermiamo noi. Un abbraccio da un’amica, una mamma, una donna, un Oss.