Il giardino dei ciliegi di Serra è un magnifico film in bianco e nero

2 febbraio 2020 | 11:33
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Il giardino dei ciliegi di Serra è un magnifico film in bianco e nero

Il regista sceglie, appositamente, di non mettere in primo piano la parola, ma la pone al servizio del chiaroscuro delle luci, dei costumi e dei corpi degli attori. Il risultato, dopo Macbettu, è ancora una volta sorprendente

REGGIO EMILIA – Una scena spoglia, gli attori a terra come se dormissero (o fossero marionette?) che, mano a mano, si alzano e prendono vita. E’ la stanza dei bambini, quella dei ricordi della famiglia aristocratica Ranevskaja, protagonista de “Il giardino dei ciliegi” di Cechov. Lo spettacolo di Alessandro Serra finirà allo stesso modo, nello stesso luogo, quasi a suggerire che i personaggi della commedia non se ne siano mai realmente andati da quella stanza e da quella infanzia e che la loro vita sia trascorsa rimanendo letteralmente imprigionati in quello spazio e in quel presente, in un mondo che sta velocemente cambiando (l’opera è del 1904 e, da lì a poco, scoppierà la rivoluzione in Russia, ndr).

L’ultima opera di Cechov, vista ieri sera al teatro Ariosto, narra la fine di un mondo e le trasformazioni della società nella Russia dell’Ottocento, la crisi dell’aristocrazia e l’ascesa della borghesia in un affresco dove, tra futili conversazioni e dissertazioni filosofiche, emergono la vacuità e l’inadeguatezza delle classi dominanti. La trama è nota: il ritorno dalla Francia di Ljubov’ Andreevna Ranevskaja, un tempo ricca proprietaria terriera, coincide con la messa all’asta del prezioso giardino. Vani i tentativi d’impedire la vendita che, anzi, si risolverà in favore di Lopachin, il mercante, figlio di un servo, in una sorta di giustizia sociale.

Nella sua messinscena del “Il giardino dei ciliegi” Serra, acclamatissimo e premiato regista del Macbettu in sardo, in cui aveva osato trasporre il bardo nella lingua dell’isola, alza l’asticella della difficoltà, perché innovare Cechov, considerando il suo tipo di scrittura, è molto più complesso che farlo con Shakespeare. A differenza del grande drammaturgo elisabettiano, che con la sua scrittura e drammaturgia, dà molti più appigli a un regista, lo scrittore russo precipita invece Serra nella banale quotidianità della vita attraverso un linguaggio che è totalmente diverso.

Cechov è il primo, a teatro, che ha scritto i dialoghi come si parla abitualmente nella vita, aprendo così la porta alla sceneggiatura cinematografica. Non succede praticamente nulla nei primi due atti del “Giardino dei ciliegi”. Per un regista il cui teatro si nutre di immagini, suoni e movimento come Serra era difficile vincere questa sfida. Eppure ci è riuscito confermandosi come uno dei migliori registi della sua generazione. Il suo spettacolo ha una forza visiva straordinaria, è quasi cinematografico. Racconta per immagini, a volte quasi come in un film muto in bianco e nero, la storia dei Ranevskaja con gli attori che, talvolta, si mettono in posa in gruppo, come in un dagherrotipo di famiglia dell’epoca.

Serra sceglie, appositamente, di non mettere in primo piano la parola, ma la pone al servizio del chiaroscuro delle luci, di costumi, dei corpi degli attori. Anche gli stimoli sonori (chiacchiericci, pianti, canti, risolini, russamenti, borbottii, colpi) fanno parte della drammaturgia in quella che, per dirla con le parole del regista, è “una partitura per anime, in cui i dialoghi sono monologhi interiori che si intrecciano e si attraversano”. Restituisce inoltre, all’opera, quelle sfumature leggere, da commedia, che Cechov voleva. Per questo si era infuriato quando vide, alla prima del 1904 a Mosca, che Stanislavskij l’aveva trasformata in un dramma.

L’ambientazione è semplice, minimale. Non ci sono scenografie importanti (a parte le alte mura della camera dei bambini), ma solo qualche tavolo e semplici sedie. Le stesse che, alla fine, accatastate, sanciranno, insieme alla morte di Firs, il vuoto silenzioso della Ranevskaja. Il giardino dei ciliegi si percepisce solo sullo sfondo, una presenza evocata, quasi ingombrante, che condiziona e pervade la vita della famiglia.

In questa scena spoglia i personaggi, come marionette (e qui l’influsso di Mejerchol’d, di cui Serra si professa allievo, è evidente) prendono vita, ora da soli, ora muovendosi in gruppo, ora attraversando la scena fugacemente, a volte anche in curiose processioni. Spesso sono diretti da una sorta di grande burattinaia, la governante Šarlotta Ivanovna, interpretata da Chiara Michelini in una buona prova attorale.

Fra gli attori da segnalare Bruno Stori nella parte di Firs, il vecchio servitore che gira barcollando con i suoi bicchieri sinistramente tintinnanti, Lopachin, un bravo Leonardo Capuano (presente anche in Macbettu) e la brava Valentina Sperlì nella parte di Ljuba.

Lo spettacolo, come detto, si chiude nello stesso modo in cui era iniziato. Undici attori-marionette dormienti, le cui vite vengono riposte nuovamente nella stanza-scatola dei bambini. L’unico a trovare la pace è il vecchio Firs che viene dimenticato e abbandonato nel finale e sospira: “La vita è passata e io è come se non l’avessi vissuta”.

Applausi convinti e ripetuti del pubblico alla fine dello spettacolo.