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Boris Johnson dalla Regina, la Brexit corre e la sterlina vola

13 dicembre 2019 | 19:25
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Boris Johnson dalla Regina, la Brexit corre e la sterlina vola

Risultati definitivi, ai Tory 365 seggi, maggioranza assoluta di più 80. Laburisti si fermano a 20. Undici seggi per i Lib-Dem, 48 agli indipendentisti scozzesi. Nessun seggio per il partito di Nigel Farage

REGGIO EMILIA – Dopo il trionfo elettorale Boris Johnson è arrivato a Buckingham Palace per incontrare la regina Elisabetta. Le elezioni britanniche hanno consegnato a Johnson e ai Tory un’ampia maggioranza assoluta a Westminster, le chiavi di Downing Street per i prossimi 5 anni e il lasciapassare per una Brexit che, a 3 anni e mezzo dal referendum del 2016, diventa irreversibile. La sterlina vola sui mercati valutari nel cambio con il dollaro e l’euro.

La regina Elisabetta, 93 anni, ha ridato formalmente l’incarico di primo ministro a Boris Johnson dopo la larga vittoria elettorale di ieri in Gran Bretagna del partito conservatore. Lo ha confermato Buckingham Palace. Si tratta di un atto scontato, suggellato durante la vista istituzionale che Johnson ha reso stamane alla sovrana. Il premier della Brexit è il quattordicesimo capo di governo a ricevere l’incarico da Elisabetta II nei suoi 66 anni di regno. Il primo fu Winston Churchill.

I conservatori britannici hanno ottenuto 365 seggi su 650 in Parlamento, secondo i risultati definitivi delle elezioni in Gran Bretagna, con una maggioranza di +80. Pesante sconfitta per il Labour di Jeremy Corbyn che ne ha ottenuti solo 203, seppure un po’ meglio dell’exit poll. Bene gli indipendentisti scozzesi del Snp con 48 seggi (+ 13 rispetto al 2017). Malino i LibDem: con 11 seggi ne perdono un rispetto alle elezioni precedenti. L’affluenza si è attesta al 67,17%, meno 1,49% rispetto al voto del 2017.

“Mi congratulo con Boris Johnson e mi aspetto che il Parlamento britannico ratifichi il prima possibile l’accordo” negoziato sulla Brexit, ha detto il presidente del Consiglio Ue Charles Michel. La Ue “è pronta a discutere gli aspetti operativi” delle relazioni future, ha aggiunto. “Una decisione inconfutabile dei britannici”, ha commentato Johnson aggiungendo: “Con questo mandato realizzaremo la Brexit”. Un risultato che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e segna invece la disfatta peggiore da decenni per il Labour.

Ed è guerra all’interno del partito, ma Jeremy Corbyn rimanda le dimissioni. Non guiderà il partito “in un’altra elezione”, ma per ora resta in Parlamento e “guiderà il Labour in una fase di riflessione”.  Il verdetto è chiarissimo. Il messaggio di BoJo, sintetizzato nella promessa-tormentone ‘Get Brexit done’, è passato. E il controllo Tory sulla Camera nega ogni credibile spazio di manovra al fronte dei partiti che s’erano impegnati a convocare un secondo referendum sull’Europa per offrire agli isolani una chance di ripensamento.

Shock anche per i liberaldemocratici: la 39enne neo-leader del partito più radicalmente anti-Brexit del lotto, Jo Swinson, che aveva cercato di proporsi addirittura come una rivale diretta di Boris Johnson e di Jeremy Corbyn, non solo non è riuscita a far avanzare la sua formazione, ma è stata bocciata anche a livello personale nel collegio di Dumbartonshire East: scalzata per 149 voti da Amy Callaghan, indipendentista scozzese dell’Snp. Swinson non però annunciato le dimissioni da leader.

Nigel Farage non considera una sconfitta il risultato negativo – peraltro previsto dai sondaggi – del suo Brexit Party alle elezioni politiche britanniche. Il partito è rimasto al palo, con zero seggi secondo l’exit poll, di fatto riassorbito dal partito conservatore di Boris Johnson dopo il trionfo nel voto (proporzionale) delle Europee di maggio. Ma secondo Farage, intervistato a caldo dalla Bbc, ha comunque contribuito a favorire il successo Tory e a evitare lo spettro di un Parlamento senza maggioranza (hung Parliament): sia non presentando candidati in oltre 300 collegi già controllati dai conservatori, sia togliendo voti ai laburisti di Jeremy Corbyn in diverse circoscrizioni del cosiddetto ‘muro rosso’ dell’Inghilterra centro-settentrionale e del Galles, tradizionalmente di sinistra, ma in maggioranza pro Brexit e contrarie a un secondo referendum.