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Macbettu, la forza primitiva e arcaica della Sardegna

8 marzo 2019 | 18:39
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Macbettu, la forza primitiva e arcaica della Sardegna
Macbettu, la forza primitiva e arcaica della Sardegna
Macbettu, la forza primitiva e arcaica della Sardegna
Macbettu, la forza primitiva e arcaica della Sardegna
Macbettu, la forza primitiva e arcaica della Sardegna

Alessandro Serra ha realizzato uno spettacolo impeccabile, coerente, nella sua originalità, dall’inizio alla fine

REGGIO EMILIA – Il buio e il rumore, una sorta di risacca del mare amplificata, ti trasportano subito in una dimensione primitiva, arcaica, in cui si muovono forze oscure e indecifrabili. L’inizio di Macbettu, lo spettacolo di Alessandro Serra che abbiamo visto alla Cavallerizza, è potente ed è un prologo chiarissimo di quello che attenderà lo spettatore. Poi arriva la lingua sarda, aspra, secca, dura. Dura come i suoni che escono dalle pietre sonore di Pinuccio Sciola, che ci accompagnano nello spettacolo, e come i sassi disseminati sul palcoscenico.

Sullo sfondo c’è una parete ferrigna e incolore, unico elemento di una scena vuota e desolata, che nel corso dell’opera diventerà, smembrandosi, in quattro parti, tavoli dove banchettare e celebrare il potere, tavoli dove fantasmi brulicano e camminano e letti dove dormire.

Serra mette in scena tragedia più nera e sanguinosa di Shakespeare, quella che mostra il desiderio di potere, ma, nello stesso tempo, la sterilità dell’ambizione, sprofondandoci in una Sardegna, arcaica, quella dei carnevali della Barbagia a cui si è ispirato, che non è molto dissimile dalla Scozia in cui è ambientato il Macbeth di Shakespeare. Sul palco, spoglio, la cenere, utile per disegnare geometrie, ma anche per ricordarci che è lì che dovremo finire tutti. Ci sono otto uomini che intepretano tutti i ruoli, tutti maschi come nel teatro elisabettiano del Bardo. E’ un mondo senza pietà, questo, d’altronde dove non c’è spazio per la delicatezza di una figura femminile.

A fare da contrasto e ad alleggerire le atmosfere ci pensano le tre streghe, gobbe e litigiose, che si insultano in siparietti decisamente godibili. Spargono polvere, queste dispettose streghe di Macbettu, si sputacchiano e si insultano a vicenda, in un florilegio di gags. Efficaci le luci che, in alcuni momenti, scendono fino a terra per illuminare meglio gli attori.

Sono tante le scene che restano impresse nella memoria di questo straordinario spettacolo. Il banchetto delle guardie che grugniscono come dei maiali (una mezza dozzina di attori a torso nudo) a quatto zampe attorno a un catino. Il passaggio sul pane carasau dello spettro di Banquo con i suoi scricchiolii sinistri che ricordano il rumore di ossa spezzate. Il celebre monologo finale di Macbeth, con il bravissimo Leonardo Capuano che si dondola sua una sedia da bambino illuminato da una lama di luce come in un interrogatorio in cui confessa, a noi e a sé stesso, di avere osato troppo.

E poi, quando tutto si è compiuto, ecco Macduff, che percuote con i pugni il fondale metallico e sprigiona ancora quel suono: un clangore sordo, ancestrale, primitivo, che ci sprofonda nel buio e nell’irrazionalità. Applausi a scena aperta, alla fine dello spettacolo per gli otto bravissimi attori e per uno spettacolo impeccabile, coerente, nella sua originalità, dall’inizio alla fine.