Una domenica lusitana con Paulo Futre

20 novembre 2018 | 17:52
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Una domenica lusitana con Paulo Futre

Le divinità del calcio hanno dato tanto al giocatore portoghese e tantissimo a noi che potemmo vedere dal vivo quei pochi arabeschi da funambolo che solo i numeri 10 di una volta erano in grado di fare

REGGIO EMILIA – Il 1993 è stato l’anno che ha cambiato tutto? L’affascinante domanda, un po’ apocalittica e visionaria come da gusto americano, se l’è posta venti anni dopo, nel 2013, il New York Magazine con un lungo articolo celebrante dodici mesi politicamente rivoluzionari. Fu lì, pare, che il mondo ripartì, gonfio di novità e moderni ribaltamenti. Visto da oggi, in provincia, di quel 1993 ricordo giusto qualche canzone dalla hit parade: “All that she wants” degli Ace of Base, “Sei un mito” degli 883, “La Solitudine” di Laura Pausini. Ricordo di essere andato una sera con i miei genitori al Cinema Al Corso a vedere uno stanco – e ormai senza idee – Paolo Villaggio in “Fantozzi in Paradiso”. Poco altro. Mio fratello sarebbe nato due anni dopo. Di politica, allora, non mi interessavo; in ogni caso, forse su quell’anno è meglio sorvolare.

Calcisticamente, per me, però, quel 1993 fu davvero rivoluzionario. Mi travolse fisicamente come un’onda, una rigida domenica padana di novembre. Subito non capii perché quella massa umana stava trascinando me, uno sbarbato undicenne avvolto in un piumino di due taglie più grande e quasi strangolato da una sciarpona di lana, dall’alto della curva Sud del Mirabello verso la porta della Cremonese, sotto di noi.

Preoccupato, mi guardavo a fianco: mio padre per fortuna era ancora lì, trascinato pure lui, in balia di tutto quell’ondulare. Ci trovammo in pochi attimi quasi a bordo campo, sommersi da bandiere e corpi in delirio; un unico organismo mosso all’unisono della gioia sfrenata. Fu in quel momento, il 21 novembre 1993, che vidi correre quel numero 10 dalla chioma fluente verso di noi e mi resi conto di cosa era appena successo: aveva segnato proprio Paulo Futre.

Il 21 novembre 1993, 25 anni fa, io e mio padre avevamo inforcato le biciclette e, come quasi tutte le domeniche, avevamo pedalato fino allo stadio. Non c’era in programma una partita di cartello; la Reggiana, al suo primo anno nella massima serie, avrebbe sfidato la Cremonese nella 12ª giornata di andata. Chi ha più di trent’anni e vive in questo angolo dell’Emilia, però, fatica a dimenticare la ressa di quel giorno davanti ai cancelli d’entrata, la circonvallazione paralizzata, un’atmosfera mista di attesa, impazienza e curiosità.

Se citi quel nome difficilmente chi ha più di trent’anni non avrà un brivido: Paulo Jorge Futre, classe 1966, dal Portogallo ai campi di via Agosti. Soffiato con una trattativa lampo all’Olympique Marsiglia, dopo aver vinto una Coppa dei Campioni in patria con il Porto (grazie al celebre tacco di Madjer) ed essersi consacrato con l’Atletico Madrid (arrivando secondo nella classifica per il Pallone d’Oro alle spalle di Ruud Gullit), il lusitano era arrivato a Reggio con il mercato di riparazione. In città non si parlava d’altro; quel 21 novembre era previsto il suo esordio. In casa, al Mirabello. La squadra era ancora in attesa della prima vittoria in serie A.

Taffarel, Accardi, Sgarbossa, Parlato, Zanutta, De Agostini, Morello, Scienza, Padovano, Futre, Mateut. L’undici della Reggiana sfida, oltre alla Cremonese, la neve che inizia a cadere sul campo. Gli avversari rischiano il vantaggio al 23° ma non succede nient’altro. Il primo tempo finisce 0-0. In curva, io e mio padre ci guardiamo intorno, stupefatti del tutto esaurito. Mai vista, a Reggio, una cosa così. Un ragazzo sui vent’anni gira fra gli spettatori vendendo Caffè Borghetti, 1000 lire l’uno. Il freddo è pungente.

Futre

Il secondo tempo è fin da subito un monologo granata e dopo circa un quarto d’ora la Storia passa da Reggio Emilia. Zanutta ha la palla, la gioca al rumeno Dorin Mateut che la prolunga verso Dario Morello. Con un guizzo, l’ala scuola Inter riesce a toccarla quel tanto che basta per farla arrivare in area a Futre. Dalla destra il lusitano si accentra, con una finta da manuale si smarca da un difensore e con un sinistro rasoterra sul primo palo batte Turci, il portiere della Cremonese. Gol, 1-0. Futre corre verso la Sud. Il Mirabello esplode con un boato, una deflagrazione nucleare. La favola sembra divenuta realtà. Reggio ha davvero trovato il fuoriclasse, il gioiello che trascinerà la squadra fra le grandi della serie A.

Galvanizzati, i granata continuano a giocare bene, rischiano qualcosa con Giandebiaggi. La partita però è in pugno, la vittoria vicina. In questa favola, però, non c’è un lieto fine, come spesso accade nella grandi storie di calcio. All’82° minuto Futre si invola sulla destra ma viene fermato da un intervento durissimo di Alessandro Pedroni. Il difensore grigiorosso viene espulso, il lusitano rimane a terra. Sul Mirabello cala un silenzio irreale. Nemmeno io e mio padre ci parliamo più. Futre viene portato a bordo campo, le sue smorfie di dolore non lasciano presagire nulla di buono. Esce in barella, accompagnato da un lungo applauso.

Il resto della storia è noto. A due minuti dal 90° Max Esposito, detto “Speedy Pizza”, crossa da destra per Mateut, che stoppa e insacca il 2-0. L’arbitro, poco dopo, fischia la fine; la Reggiana di Pippo Marchioro coglie la prima vittoria in serie A. Dovrebbe essere una gran festa, ma il pensiero di molti è rivolto al fantasista lusitano. Io e mio padre, in quella grigissima domenica novembrina, usciamo allora dal Mirabello, inforchiamo le biciclette e pedaliamo in silenzio fino a casa. Sia io, sia mio padre – questo non lo so con certezza, ma potrei quasi giurarci, ora – avevamo addosso quella sensazione di chi ha appena visto il lampo accecante di una meraviglia che non vedrà mai più. Una stella cometa che passa sopra la Terra ogni milione di anni. Si rimane attoniti, ci si chiede se sia successo davvero.

Le squadre di calcio sono incredibilmente fantasiose nel trovare nuovi modi per far soffrire i propri tifosi. Vanno in vantaggio poi buttano via la partita; una settimana battono la prima in classifica e quella successiva perdono contro l’ultima; a metà stagione ti fanno credere di poter aspirare anche alla promozione e poi fanno dietro front; quando pensi di aver visto la cosa peggiore che poteva succedere, loro riescono a saltar fuori con qualcosa di nuovo. In questa storia ci si mise in mezzo una frattura subtotale del legamento rotuleo del ginocchio destro.

Nelle foto che appaiono sui quotidiani il giorno dopo, Futre è steso sul letto d’ospedale di una clinica di Verona, ha un mezzo sorriso malinconico che i portoghesi si portano addosso come una condanna, la mano destra stringe quella della moglie Isabel. Lei non fissa l’obiettivo dei fotografi, guarda invece altrove; ha capito tutto. Subito dopo l’operazione, il lusitano dice poche cose: “La colpa non è di Pedroni, l’errore è stato mio: sono caduto male dopo il dribbling”. Anche il chirurgo compie un errore, peccando di ottimismo e illudendo un’intera città: “Due mesi e torna in campo”.

“Tornerò più forte di prima”, osa ancora il campione portoghese. Ma la sua carriera finisce quel giorno, e poi un po’ per volta tutti i giorni seguenti. Girerà molte squadre, si opererà ancora, smetterà di giocare e tornerà in campo per l’ennesimo rientro almeno una decina di volte. E ogni volta il ginocchio destro gli dirà che no, non è ora. “È stato un errore madornale comprarlo, era già infortunato e ci hanno fregato”, mi dirà, quasi sottovoce, mio padre qualche tempo dopo, scuotendo la testa, sconsolato.

Futre

Una leggenda racconta che assai spesso, in quel rigido inverno di stop dopo l’operazione, lo si vedeva uscire con una Pontiac familiare dalla villetta in cui abitava nella Reggio residenziale, vicino al campo da baseball, e vagare in auto da solo a zonzo per la città, una piccola città emiliana di provincia che lui cercava di conoscere con quei lunghi tour in solitaria.

Le divinità del calcio hanno dato tanto a Futre, e tantissimo a noi che potemmo vedere dal vivo quei pochi arabeschi da funambolo che solo i numeri 10 di una volta erano in grado di fare. Ma le divinità del calcio ci hanno chiesto molto in cambio. Ora mio padre non c’è più; di Futre si sono perse le tracce – se si eccettua la sua apparizione su una copertina dell’edizione portoghese di Playboy, molti anni dopo quel 1993 e una intervista al “Mattino” di Napoli del 2016 in cui sostiene di essere diventato giornalista per “Record”, quotidiano sportivo portoghese –; la Reggiana gioca nei dilettanti contro improbabili squadrette di quartiere, e neanche io per la verità mi sento molto bene.