Il processo alla 'ndrangheta |
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Aemilia, la corte si ritira per la sentenza

16 ottobre 2018 | 17:03
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Aemilia, la corte si ritira per la sentenza

I giudici sono già in questura dove lavoreranno in sicurezza. Oggi è il giorno degli imputati che dicono: “Siamo innocenti”

REGGIO EMILIA – “La corte si ritira per deliberare”. Sono le parole del giudice Francesco Maria Caruso, che verso le 14.45 di oggi concludono il processo di primo grado Aemilia, celebrato contro la ‘ndrangheta a Reggio Emilia da quasi tre anni. Un quarto d’ora dopo Caruso e gli altri due membri del collegio, Cristina Beretti e Andrea Rat, varcano con i trolley la soglia della Questura reggiana, dove scriveranno la sentenza per i 148 imputati. I giudici avranno una stanza a testa nei locali di via Dante, dove la sorveglianza sara’ massima h 24. Mangeranno anche alla mensa della Questura e potranno disporre di una sala per le riunioni.

Gli imputati: “Siamo innocenti”
Oggi è stato anche il giorno in cui gli imputati hanno preso la parola per l’ultima volta. Su tutti gravano accuse pesanti – dal reato di associazione mafiosa, all’usura, l’estorsione e le false fatturazioni – e rischiano svariati anni di carcere (1.712, in totale, quelli chiesti dalla Procura). Per questo oggi, nell’ultima udienza del processo Aemilia celebrato a Reggio Emilia, una ventina di imputati (sui 148 totali) non ha voluto rinunciare alla possibilita’ di prendere la parola, per ribadire la propria innocenza dai reati contestati e, soprattutto, la estraneita’ alla cosca di ‘ndrangheta infiltrata da Cutro in Emilia.

Se alcuni imputati eccellenti dell’inchiesta culminata con gli arresti del gennaio del 2015 sono rimasti in silenzio (e’ il caso dell’imprenditore Omar Costi e di Gianluigi Sarcone, fratello del piu’ alto in grado nella cellula emiliana Nicolino), altrettanti si sono invece fatti avanti, ribadendo fiducia nell’imparzialita’ dei giudici, raccontando le loro vite spezzate da 4 anni di vicende giudiziarie o confutando le dichiarazioni fatte sul loro conto dei collaboratori di giustizia.

E’ il caso ad esempio di Luigi Muto, secondo il pentito Antonio Valerio uno dei quattro nuovi reggenti della consorteria che hanno assunto il comando dopo gli arresti, che dichiara: “Io non sono il reggente di nessuna cosca, sono il pilastro solo della mia famiglia. La mia e’ una famiglia di lavoratori. Sono nato a Reggio Emilia e orgoglioso di vivere qui”. Oppure di Mirco Salsi, imprenditore reggiano presidente fino al 2013 della Reggiana Gourmet, che per recuperare un maxi credito da 1,3 milioni dalla faccendiera bresciana Maria Rosa Gelmi (soldi di un affare non andato in porto e svaniti nel nulla) si rivolse tramite l’amico e volto tv reggiano Marco Gibertini all’imputato Antonio Silipo.

“La mia colpa – spiega Salsi – e’ di essermi fidato e di essere stato ingannato da Gibertini e che era mio amico e a cui ho anche prestato dei soldi, ma soprattutto da Gelmi, con cui pensavo di avere un rapporto sentimentale. Non sono un complice ma la vittima di persone malvagie che mi hanno portato via salute, anni di risparmi e soprattutto il rapporto con i miei figli”.

Antifona che risuona anche nelle parole dell’imprenditore Giuseppe Vertinelli: “Non sono un membro della ‘ndrangheta, non lo sono mai stato, ho solo commesso degli errori”, mentre Giuliano Debbi (anche lui imprenditore) invoca: “Rivoglio la mia vita”. Pasquale Brescia, altra figura ritenuta dall’accusa emblematica del mondo economico locale colluso, sceglie invece tra l’altro la linea della delegittimazione dei pentiti. Di Antonio Valerio dice: “Nessuno degli imputati puo’ dirsi al sicuro da questo mitomane. Quando ha capito che le cose si mettevano male ha deciso di collaborare e di crearsi il personaggio”. E’ poi la volta dei fratelli Amato, Alfredo e Francesco: “Da quattro anni sono in carcere e fino ad ora la mia colpevolezza non e’ stata provata. Sono contento che ci sia questo collegio perche’ mi ispira fiducia”, dice il primo. Mentre il secondo si dichiara “delinquente per poverta’”, ma non mafioso.

Come pure Salvatore Silipo: “Sono 20 anni che faccio reati ed entro ed esco dal carcere, non sono un angioletto, non faccio recite. Ma i miei reati sono individuali”. Michele Bolognino, che secondo i pubblici ministeri dirigeva gli affari della cosca, si professa solo come un lavoratore e lo stesso fa Alfonso Paolini, considerato il front man addetto alle pubbliche relazioni della consorteria: “La mia vita e’ stata solo lavoro e sport”.

Il carabiniere in pensione Mario Cannizzo accusato di estorsione, si discolpa e osserva: “Molti esponenti delle forze dell’ordine, anche di livello piu’ alto del mio,andavano a cena con questi soggetti senza aver consapevolezza. Confido nella vostra serenita’ di giustizia e di saper distinguere, di togliermi da questo incubo che ha stravolto la vita mia e dei miei familiari” (fonte Dire).