Autismo, l’esperienza della ricercatrice reggiana Fabiola Casarini

10 marzo 2018 | 11:27
Share0
Autismo, l’esperienza della ricercatrice reggiana Fabiola Casarini

Il direttore scientifico di Casa Gioia è stato il primo a portare in Italia dagli Usa la ricerca applicata in educazione. È punto di riferimento per le famiglie di bambini e ragazzi con disturbi dello sviluppo

REGGIO EMILIA – Nelle parole di Fabiola Casarini c’è tutta la straordinaria passione per il suo lavoro. Riduttivo, a dire il vero, chiamarlo così: a lei piace parlare di “missione culturale”. Reggiana, 37 anni, laureata in psicologia, analista del comportamento, Fabiola è stata tra i primi a portare in Italia la ricerca applicata in educazione, la prima ad averlo fatto direttamente dagli Stati Uniti dopo gli studi alla Columbia university condotti a prezzo di enormi sacrifici, ma sostenuta da una forza di volontà fuori dal comune e dalla stima del professor Douglas Greer, considerato ilmaggior esperto al mondo in applied behaviour analysis (ABA), conosciuto quasi per caso nel periodo di tirocinio post-laurea a Manhattan.

L’esperienza umana e professionale di Fabiola Casarini è così articolata e ricca di aneddoti che raccontarla risulta difficile. Il racconto impone una sintesi, ma una carriera che lei stessa definisce “un viaggio, che ha richiesto io mi mettessi in moto per trovarne il punto di partenza e che impone io continui a muovermi per costruirne l’arrivo” rende ardua l’impresa. Ilmotivo profondo del suo lavoro è “dare speranza alle famiglie, perché con la ricerca si possono ottenere buoni risultati, e collaborare con ogni genitore come se il figlio fosse il mio – spiega – perché tutti i bambini meritano lo stesso livello di attenzione e qualità. L’eccellenza è lo standard minimo indispensabile, quando ci si prende cura delle persone”.

Docente in corsi di laurea per insegnanti e psicologi in Italia e all’estero e coordinatrice del master “Autismo e disturbi dello sviluppo” dell’università di Modena e Reggio, Fabiola Casarini è anche il direttore scientifico di Casa Gioia, la start-up innovativa a vocazione sociale presieduta da Stefania Azzali. Due donne al vertice, che dirigono una cooperativa in cui le quote rosa sono ampiamente rappresentate, esempio virtuoso del “fare squadra” al femminile.

Durante il suo percorso di studio in psicologia, Fabiola lamenta la mancanza di esami e di occasioni professionalizzanti. Appena laureata, decide di specializzarsi in un centro per l’autismo oltreoceano, dove sa che per insegnare ai bambini si utilizzano tecniche evidence based – lo sa perché si è documentata su internet in funzione della sua tesi di laurea, dato che in Italia nessuno le insegna né le utilizza – e dove vale il principio della supervisione sugli insegnanti, senza che questo venga percepito come punitivo dalla categoria.

Inizia come volontaria alla Keller school di Yonkers, una scuola speciale frequentata da bambini con diagnosi precoci di autismo; conosce ancora poco l’inglese, a scuola ha studiato francese e tedesco, e così le viene assegnata una classe di bambini tra i 18 mesi e i due anni. “Imparavamo le parole insieme”, racconta. “La barriera linguistica mi faceva soffrire moltissimo. L’unico aspetto facilitante per me era stare con i piccoli, che lì avevano l’opportunità di recuperare le tappe di sviluppo che non si erano innescate negli anni in cui c’è la massima plasticità neuronale. In quel primo periodo ho cercato di aiutare in tutti i modi possibili comprendendo dal non verbale di cosa c’era bisogno e mettendomi totalmente a disposizione”.

Al termine del semestre, Fabiola non padroneggia ancora la lingua ma conosce le dinamiche di quel posto di lavoro. Riesce a condurre da sola le prime parti di intervento: lo fa in un modo meccanico, grazie alla presenza di un supervisore, che le mostra come fare e poi le fa ripetere l’azione sotto il suo controllo. “Sono tornata a casa con la voglia di studiare e con la consapevolezza di avere tra le mani un’opportunità di contatti senza precedenti”.

Il professor Greer le scrive una lettera di referenze e le illustra le condizioni cui avrebbe potuto frequentare il suo master e poi il suo dottorato. La cifra è astronomica, Fabiola non ha tutti quei soldi, ma la prospettiva di tornare a Manhattan la galvanizza: oltre a frequentare la Columbia University, la migliore Ivy League americana per quanto attiene alle scienze umane, la aspetta un’esperienza lavorativa in alcune scuole specializzate legate al suo corso “perché per diventare un’analista del comportamento che sia anche ricercatore, è necessario svolgere tante ore di lavoro, come per la pratica chirurgica. La mia specializzazione non esisteva in Italia: quella era la migliore scuola al mondo per ottenerla”.

Torna a casa e insieme a una collega apre una cooperativa sociale, che può aiutarla a raccogliere i fondi utili per partire di nuovo e studiare, con l’obiettivo di restituire tutto il know how acquisito alla cooperativa stessa. Sei mesi dopo riparte per New York con meno della metà dei soldi che le servono ma fiduciosa di poter trovare una soluzione. Comincia un periodo duro: inizialmente Fabiola non ha neppure un appartamento perché i prezzi di Manhattan sono altissimi, e viene ospitata dalle colleghe di corso. Ogni giorno però si presenta puntualmente al lavoro.

Passa ogni secondo libero a studiare l’inglese: “Credo di avere respirato l’aria di competizione e l’adrenalina di quella città, che unite alla mia ambizione e alla passione enorme per ciò che facevo, hanno fatto il resto. Mi sentivo un’atleta che deve preparare le Olimpiadi. Mi alzavo alle cinque del mattino per lavorare a scuola, dove ogni giorno c’era qualcuno che misurava la mia velocità, la mia accuratezza, la mia naturalezza nello svolgere i compiti che mi venivano affidati; arrivavo a casa alle dieci di sera dopo l’ultima lezione all’università. Ogni weekend c’era una verifica. Dopo un anno e mezzo padroneggiavo la lingua ed ero diventata competitiva anche a livello accademico: ero in grado anch’io di scrivere ricerche pubblicabili. In un sistema come quello, è come se tre mesi valessero tre anni”.

Fabiola torna in Italia per un’estate: spiega ai colleghi della cooperativa le tecniche di insegnamento evidence based che ha imparato in America. A quel centro iniziano a rivolgersi le prime famiglie di bambini e ragazzi autistici, che hanno sentito parlare dell’ABA: c’è fiducia e speranza in questa scienza che arriva da oltreoceano, nonostante la si conosca poco o nulla. Poi Fabiola torna a New York per proseguire il suo percorso, che prevede altri tre anni di dottorato.

Al termine, dopo un periodo in cui fa la spola tra Reggio Emilia e New York, decide di rientrare stabilmente in Italia: “L’ho fatto per senso di responsabilità, nel momento in cui avrei potuto iniziare a costruire la mia carriera negli Stati Uniti. Mi sento in missione culturale: la mia vita serve a insegnare agli altri quello che ho avuto l’opportunità di imparare. Oggi ho capito che purtroppo non parteciperò alla rivoluzione culturale che serve alla scuola italiana ma spenderò la mia intera carriera a creare il terreno accademico perché altri possano farla. Non ho neanche quarant’anni e tanta vita sulle spalle, ma è necessario sia così per aiutare le persone. Con quale faccia potrei stare di fronte alla mamma disperata di un bambino cui è stato diagnosticato l’autismo? Comincio a essere a mio agio adesso, che sono diventata madre anch’io, ho vissuto sulla mia pelle l’esperienza della malattia, conosco il sacrificio, la paura, la povertà”.

Oggi Fabiola Casarini è direttore scientifico di diversi progetti all’interno di cooperative o di altri enti; lavora a Reggio Emilia, a Rubiera, a Molfetta (Bari), a Salsomaggiore Terme. Vorrebbe contribuire a creare modelli imitabili di donna capo appassionata alla professione, ma che al tempo stesso riesce a formare una famiglia e ad avere figli. “Si può essere donne, e madri, e tante altre cose, senza dover rinunciare alla carriera. Abbiamo tutto ciò che serve: il multitasking, la creatività, la capacità di non perderci in un bicchiere d’acqua e di risolvere i problemi. Ma per motivi culturali vediamo molti ostacoli e ci spaventiamo”, dice.

Tra i suoi sogni realizzati c’è il libro scritto a quattro mani con il professor Douglas Greer, che vedrà la luce tra un mese, edito da Fioriti, e la fondazione di Errepiù, un fablab di ricercatori in applied behaviour analysis, che studiano cosa è efficace, quanto, come e per chi, al fine di aiutare le persone a raggiungere obiettivi di apprendimento socialmente significativi. “Ho riunito attorno allo stesso tavolo professionalità diverse – psicologi, pedagogisti, insegnanti – disposte a confrontarsi l’un l’altra, in assoluta gratuità, al solo scopo di dare risposta alle domande concrete di chi ha un bisogno”.