Gucci Osteria, fra la via Emilia e il Messico

2 febbraio 2018 | 16:59
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Gucci Osteria, fra la via Emilia e il Messico

Siamo stati nel ristorante appena aperto da Bottura e della maison fiorentina in piazza della Signoria a Firenze: un intrigante viaggio dandy fra moda e cucina d’autore

REGGIO EMILIA – Tra gli eventi da non perdere che il mondo della gastronomia italiana ci riserva per il 2018, occupa un posto di prima grandezza l’apertura della “Gucci Osteria da Massimo Bottura” nel Gucci Garden di Firenze. Il luogo – senza riferimento alcuno alla neonata creatura di Farinetti&Coop a Bologna – è fico che più fico non si può. Il “GO” di Gucci&Bottura è in Piazza della Signoria. Il Gucci Garden occupa gran parte del Tribunale della Mercatanzia, costruito nel 1359 all’angolo di via dei Gondi.

Osservando da fuori l’imponente edificio, ci viene spontaneo pensare che sì, indubbiamente i tortellini in crema di Parmigiano-Reggiano, piatto emilian-botturiano per antonomasia, ne hanno fatta di strada…A piano terra c’è il negozio, con oggetti e prodotti disponibili solo ed esclusivamente nel Gucci Garden, mentre al primo e al secondo piano, ai quali si accede pagando un biglietto di 8 euro, si trovano due gallerie, con installazioni di artisti del calibro di Vittorio Accornero, Nick Night, Coco Capitàn, Chris Cunningham, Jayde Fish e Trevor Andrew, le cui collaborazioni con la maison italiana hanno codificato negli anni lo stile Gucci, un patchwork di culture e tendenze che vanno dal dandismo al punk, tenendo come base e riferimento l’ispirazione alla natura.

Il giardino, nelle intenzioni del creativo Alessandro Michele che ha coprogettato il Gucci Garden, è reale e soprattutto mentale: quindi c’è profusione di elementi floreali a volontà, ma anche la presenza inquietante di animali fortemente evocativi come il serpente. Strepitosa la sala con le borse da viaggio create da Gucci dagli anni ’30 a oggi, che ci è stata illustrata da Josè, giovane e premuroso addetto Gucci di origini castillane.
A piano terra si accede al ristorante concepito da Massimo Bottura attraversando il negozio, dove si possono acquistare anche i piatti di Richard Ginori che troviamo sui tavoli ben attovagliati dell’osteria. Gucci Garden è stato inaugurato la sera del 9 gennaio.

Il vostro cronista alle 9.31 della mattina del 10 ha chiamato per prenotare. Non ci siamo però catapultati a Firenze perché attratti dal cospicuo battage pubblicitario: Vogue Italia di dicembre ha praticamente dedicato il numero al sodalizio moda & gastronomia, con una lunga intervista allo chef e patron della Francescana e all’amministratore delegato di Gucci, il reggianissimo Marco Bizzarri che di Bottura, in gioventù, è stato anche compagno di banco a scuola. In quel numero di Vogue abbiamo trovato cose ragguardevoli, ad esempio la sexy copertina con Cat McNeil e altre super topmodel impegnate a sgomitare mezze nude sui tacchi a spillo in cucina, e altre meno.

La tostada di Palamita

Non siamo stati attirati a Firenze neppure da affermazioni un po’ estemporanee come quelle attribuite allo stesso Bottura (“l’alta moda e l’alta cucina sono un connubio perfetto, trasmettono emozioni alle persone”), né tanto meno siamo corsi al GO “per sentirci più intelligenti”, come ha scritto su “Dissapore” Chiara Cavalleris. Ci siamo andati perché se due giganti – e questo indubbiamente oggi sono – come Bottura e Gucci investono così pesantemente, in termini di risorse finanziarie, energie, comunicazione, ecc. su un progetto del genere, andarci è un must e basta. Eppur bisogna andar, cantavano i partigiani.

La cucina, dunque, è presidiata da Ana Karime Lopez, chef messicana con esperienze in grandi ristoranti come il Central di Lima, il Noma di Copenhahen, il Mugaritz di San Sebastian e il RyuGin di Tokyo. La giovane cuoca è sposata con il giapponese Takahiko Kondo, meglio noto come “Taka”, da tempo colonna della cucina della Francescana insieme a Davide Di Fabio dopo che Yoji Tokuyoshi ha lasciato Modena per intraprendere la carriera solista. E insomma, si può presumere che la sera tardi, quando Ana e Taka si ritrovano a casa, o al mattino presto, prima di andare al lavoro, se i due si mettono a chiacchierare di gastronomia qualche idea interessante salti fuori.

Alla Gucci Osteria abbiamo ordinato la “Caesar Salad in Emilia”, arricchita da chips di pane e Parmigiano-Reggiano, la “Tostada di palamita”, un taco croccante con salsa di lime e avocado e chipote, poi lo “sgombro in salsa ponzu” e il “Macao Bacalao”, un piccolo capolavoro con olio di oliva, purè di patate, brodo di calamari, daikon ed alghe verdi, buono ai limiti della commozione, e abbiamo innaffiato il tutto con un fresco e gradevole biologico altoatesino, il Moscato Giallo Manincor 2016. A proposito di vini, in carta, se si escludono gli champagne francesi, di fatto non ci sono etichette straniere, con un’unica notevole eccezione, la Malvasija del Carso di Marko Fon.

Come contorni abbiamo scelto i carciofi alla Giudia e le melanzane thai piccanti, queste ultime da standing ovation, cotte con olio di sesamo, brodo di ostriche e cipollotti. Prima di passare ai dolci, non abbiamo resistito alla tentazione di ordinare il “Taka Bun”, il panino con pancia di maiale cotto al vapore ideato da Taka Kondo e reinterpretato qui a Firenze da Ana Karime Lopez. Infine i dolci, il “tiramisu roll cake” a forma di Girella, il “Charley Marley”, una mousse di cioccolato dedicata a Charley, il figlio di Bottura e Lara Gilmore, e l’”amarena cheesecake”, che ci è stata offerta dalla cucina. I dessert sono stati accompagnati da due calici da meditazione di Sebastiano 2001.

L’interno della Gucci Osteria

Sorvoliamo su un paio di incertezze organizzative, probabilmente dovute al periodo di rodaggio che il ristorante sta ancora vivendo, che sono state compensate in sala dalla gentilezza della maitre brasiliana Barbara Tollendal. Alla fine c’è stato anche il tempo per una chiacchierata con Lara Gilmore, che molto cortesemente si è seduta a tavola con noi a fine pranzo per sentire le nostre impressioni.

In sostanza, la sfida di aprire un ristorante botturiano al Gucci Garden, che non può essere l’Osteria Francescana ma non è neanche la Franceschetta, con la quale il nuovo locale ha in comune alcuni piatti rivisitati dalla cuoca messicana, è esaltante ma comunque complicata. Negli ultimi anni, altri nomi famosi della moda hanno promosso l’apertura di luoghi votati all’alta ristorazione con risultati a volte discutibili, basti pensare al GOLD di Dolce&Gabbana e all’Armani Nobu a Milano, a volte interessanti, come “The Stage-Replay” di chef Fabrizio Albini nella spettacolosa piazza Gae Aulenti a Milano. La Gucci Osteria ha un grandissimo potenziale, che sono le stesse della sua giovane chef. Vuole essere informale ed easy, dovrà fare attenzione a non commettere mai il peccato mortale di scivolare nella ristorazione veloce, che è quella che forse qualche turista danaroso e frettoloso potrebbe molto erroneamente aspettarsi in un luogo così. In realtà le aspettative di chi si siede a uno dei non numerosi tavoli – i coperti sono in tutto 35 – sono e devono essere alte, e anche il conto è quello di un ristorante stellato.

Ce ne usciamo dal Gucci Garden però con due dubbi amletici. Il primo è questo: la Gucci Osteria, per parafrasare lo stesso Bottura e un suo vecchio maestro, Ferran Adrià, è forse “cibo per la mente”, vuole cioè collocarsi nell’”ultracucina” – rubo il termine ad Alessandra Meldolesi che lo ha recentemente utilizzato su “Reporter Gourmet” – in un terreno nel quale le “tendenze logiche, filosofiche” e pure artistiche aggiungiamo noi, prevalgono sulla bieca e banale materialità del cibo?

La risposta del vostro critico gastronomico è “nì”: la sensazione che ci ha lasciato la Gucci Osteria è stata quella di un bel viaggio gastronomico, tra Messico, Thailandia, Emilia, ex colonie portoghesi, Giappone e qualche altra cultura che forse ci sfugge.
Il secondo dubbio invece è di più ingarbugliata risoluzione. Un vecchio gallerista qualche tempo fa ci ha detto che “quando l’arte e la moda vanno a braccetto è un disastro”. E’ veramente così? In fondo gli artisti da sempre campano e lavorano grazie al mecenatismo, e i soldi nell’arte oggi li investono soprattutto le banche, le multinazionali e le grandi case di moda. Ai posteri l’ardua sentenza, la risposta a questa domanda la lasciamo in sospeso ed è probabilmente troppo complessa per la nostra umile testolina.

Questa favola ha comunque una morale: si può criticare Massimo Bottura, e perfino quel vecchio brontolone del vostro cronista ogni tanto lo fa, ma non dimentichiamo che criticare Bottura è un po’ come criticare la Ferrari. E’ vero che il lato passeggero della Ferrari è un po’ stretto, ma è pur sempre una Ferrari.