Crack cooperativi e aziendali: due pesi e due misure

29 aprile 2017 | 10:00
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Crack cooperativi e aziendali: due pesi e due misure

Grande severità con i manager coop e indulgenza con quelli delle società di capitali. Il fatto è che, dopo il 2008, il mondo è cambiato profondamente e che alcuni meccanismi, che prima funzionavano nell’asfittico mercato capitalistico italiano, ora non funzionano più

REGGIO EMILIA – Il sindaco Vecchi ha ragione quando dice che bisogna sì guardare al crack di Unieco e analizzarlo, ma bisognerebbe anche occuparsi delle vicende Terex (ex Reggiane), Artoni e Manodori (ma l’elenco è lungo e si potrebbero aggiungere anche Landi Renzo e Brevini, ndr). Il fatto è che qui, in crisi, non è tanto il modello cooperativo, ma piuttosto, verrebbe da dire, un modello economico basato sulla old economy e su un capitalismo di relazione che, oggi, non paga più.

Partiamo dalla vicenda Konecranes. L’azienda finlandese, a gennaio di quest’anno, aveva acquistato lo stabilimento dagli statunitensi della Terex che, a loro volta, lo avevano comprato nel 2009 dalle ex Officine Reggiane. Ebbene, ora i finnici hanno deciso, dopo soli quattro mesi, che quello stabilimento è ora di chiuderlo e che tutti i dipendenti devono andare a casa. Attenzione, però, perché i 158 dipendenti della Konecranes sono gli ultimi superstiti di una gloriosa storia che affonda le radici all’inizio del secolo scorso quando furono fondate le ex Officine Reggiane.

Sulla storia delle Reggiane e sul suo contributo al modello di sviluppo della nostra provincia sono stati scritti libri e trattati. Non ci dilungheremo oltre, quindi. Singolare però che il triste epilogo di questa lunga e gloriosa storia la cui testimonianza, oggi, sono dei capannoni sventrati in cui, si spera, nascerà il futuro Tecnopolo, non venga sviscerato, analizzato e non se ne sia mai chiesto più di tanto conto al cavalier Fantuzzi, ultimo proprietario della gloriosa fabbrica.

E che dire di Anna Maria Artoni, ad di Artoni Trasporti, a lungo dirigente nazionale e regionale di Confindustria e del balletto della sua azienda, praticamente decotta, che ha perso 200 milioni di euro in tre anni come evidenziato dal nostro giornale, ora costretta a vendere, se andrà bene, solo un ramo d’azienda ai bolzanesi di Fercam che si sono comportati in modo piuttosto discutibile in tutta la trattativa, mentre gli altri dipendenti resteranno probabilmente tutti a casa? Anche qui ci sarebbe molto da scrivere e da analizzare. Eppure, sulla stampa locale, la Artoni figura praticamente come una vittima presa in giro dai cattivi altoatesini.

Poi c’è Stefano Landi, ex presidente di Confindustria reggiana e ora presidente della Camera di commercio. La sua Landi Renzo naviga in brutte acque. Tanto che al suo posto, come ad, è arrivato da Lampogas (azienda concorrente, ndr)Cristiano Musi che resterà ad di quella azienda. Profondo rosso da anni nei conti della azienda. La situazione è difficile e infatti recentemente Landi ha chiesto ai creditori di riscadenziare un’obbligazione. Ah, è vero, scusate, se la Landi Renzo va male la colpa non è dei suoi manager, ma del prezzo del petrolio che cala e delle grandi aziende automobilistiche che si costruiscono gli impianti a Gpl in casa.

Passiamo in casa di un’altra famiglia eccellente reggiana. Brevini, in evidente difficoltà, ha dovuto alzare bandiera bianca ed è stata acquistata dalla statunitense Dana. L’accordo prevede che Dana acquisti inizialmente l’80% delle quote di Brevini Power Transmission e di Brevini Fluid Power, con l’opzione di acquisto per il rimanente 20% delle quote entro il 2020. Anche qui, tutto bene. Brevini ha dovuto vendere perché i conti non andavano per niente bene, come rilevato a suo tempo da Reggio Sera, e l’azienda era in palese difficoltà. Tuttavia, sulla stampa locale, è uscita la versione che “grazie a questo accordo, Brevini avrà accesso a nuovi segmenti e a nuove aree geografiche, aumentando significativamente le opportunità di diffusione dei propri prodotti sul mercato globale”. Capito come funziona?

Per ultimo la Manodori. Feudo del mondo confindustriale sempre gestito da uomini dell’industria privata. Il presidente dell’ente dal 2009 è Gianni Borghi, ai vertici del gruppo Lombardini per anni e presidente degli industriali di Reggio dal 2006 al 2010. Volete qualche cifra sulla Manodori? Ebbene dal 31 dicembre 2014 a marzo 2016, ovvero in poco meno di un anno e mezzo, il valore delle azioni Unicredit in pancia alla Manodori è calato del 36%, passando da quasi 92 milioni a 59,4 milioni. E la situazione negli ultimi mesi non è certo migliorata dato che il titolo della banca ha continuato a perdere terreno. Il patrimonio della Manodori, che appartiene ai reggiani, investito per lo più e inspiegabilmente in titoli Unicredit (attualmente costituiscono ben il 46% del patrimonio dell’ente ma in passato questa percentuale era anche più alta), è stato dilapidato, visto il crollo del titolo negli ultimi anni, da chi l’ha gestita. Difficilmente in Lombardini avrebbero perdonato una cosa del genere a Borghi. Anche qui, a parte rari casi, silenzio tombale da parte dei media locali.

Ora non è che qui si voglia difendere manager cooperativi che hanno fatto sicuramente errori, come Mauro Casoli ed altri, per poi, magari, mandare videointerviste di un’ora ai giornali per replicare stile “Berlusconi dei poveri”. Tuttavia, per par condicio, bisognerebbe iniziare a mettere sulla graticola anche tutti i presidenti e ad di aziende reggiane che non sono riusciti ad intrepretare lo spirito dei tempi. Oppure, più correttamente, prendere atto che il mondo dopo il 2008 è cambiato profondamente e che alcuni meccanismi, che prima funzionavano nell’asfittico mercato capitalistico italiano, ora non funzionano più. E questo vale per tutti: coop e società di capitali. E anche Fondazioni.