In fuga dall’Isis, la vita dei profughi fra i monti dell’Iraq

24 novembre 2016 | 10:14
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In fuga dall’Isis, la vita dei profughi fra i monti dell’Iraq

Reggio Sera è stata nei campi iracheni dove opera Terre des Hommes. Un capo Yazida: “Pagati 230mila euro per riscattare una madre e sua figlia. Non perdoneremo chi ci ha tradito”

ERBIL (Kurdistan iracheno) – Sono fuggiti dalle loro case quando è arrivato l’Isis, nell’agosto di due anni fa. Hanno visto i loro amici e parenti morire di fame e di sete sul monte Sinjar dove erano stati accerchiati dai miliziani di Daesh, mentre altri si sono fatti centinaia di chilometri a piedi con poco o niente da mangiare per arrivare fino qui. Sono gli Yazidi, una delle tante minoranze etniche dell’Iraq del nord. Gli adoratori del diavolo, vengono definiti e, anche per questo, sono stati perseguitati.

Ma in realtà gli Yazidi, minoranza etnica di lingua curda, di demoniaco non hanno proprio nulla. Credono in un Dio che è in relazione con il mondo attraverso sette angeli creatori sue emanazioni. Il primo in dignità è Melek Tā’ūs, o angelo Pavone, la figura dominante della religione yazidica che è l’angelo caduto, ma non divenuto come in altre religioni, ad esempio la cristiana, Satana, e non adorato in quanto diavolo, ma per la sua natura buona e la sua potenza di creatore.

Il primo campo dove li troviamo, nel nostro viaggio con Terre des Hommes, la onlus che si occupa di assistenza ai rifugiati nel Kurdistan iracheno, è quello di Rawanduz, un centinaio di chilometri a nord di Erbil ai confini tra Turchia e Iran. Qui vivono una cinquantina di famiglie. Entriamo in una povera casa in muratura dove ci accoglie il capo del villaggio, Ismail. Racconta: “Siamo arrivati qui a piedi da Sinjar. In questo villaggio molti sono fuggiti all’ultimo momento. Hanno parenti che sono stati presi dall’Isis e non sanno più che fine hanno fatto. Mia madre è morta durante il viaggio fino qui”.

E racconta di un riscatto. “Abbiamo pagato 220mila euro – dice l’uomo – per liberare una ragazza e un bambino. I soldi li abbiamo raccolti nella nostra comunità. Tutti ci hanno aiutato per farli tornare qui. Su quella maledetta montagna (di Sinjar dove gli Yazidi sono rimasti assediati dai miliziani dello stato islamico per giorni, ndr) in tanti di noi sono morti di fame e di sete. Gli elicotteri ci lanciavano i pacchi dall’alto, ma non bastavano”.

Attraversiamo un campo da calcio in stato di abbandono e arriviamo a un altro campo. Qui ci attende un altro capo, Jalal, due mogli e sette figli, che racconta: “Siamo fuggiti alle sette di mattina. Chi con la macchina e chi a piedi. Non so cosa è successo a chi non ce l’ha fatta. Dopo due anni ora vorrei tornare nella mia casa. Dovete fermare quelli dell’Isis. Ho visto quello che hanno fatto in Europa e in Francia. Cosa accadrà quando l’Isis sarà sconfitto? Torneremo nelle nostre case, ma non possiamo perdonare quello che ci hanno fatto. Lì ci sono dei traditori che hanno venduto le nostre famiglie. Posso tollerare che uno uccida in guerra, ma chi ha tradito no”.

Riprendiamo l’auto e andiamo più ancora più a nord, a Soran. Qui in due campi profughi, sempre gestiti da Terres des Hommes, c’è un’altra minoranza etnica perseguitata, quella degli Shobek. Vi abitano famiglie che sono fuggite dai villaggi intorno a Mosul, la terza città dell’Iraq, circa 150 chilometri a ovest. Anche qui entriamo nella povera casa di Rosen il capo villaggio che ci dice: “Vogliamo tornare nelle nostre case, ma molte, purtroppo, sono state distrutte e bombardate. Siamo stati perseguitati da Saddam e poi adesso dall’Isis. Noi vogliamo solo la pace. Certo non sarà facile tornare là con gli arabi che ci hanno tradito”.

Nel campo a fianco, invece, ci sono degli altri Yazidi fuggiti da Sinjar. Ci racconta un uomo: “Siamo fuggiti due anni fa da Sinjar quando è arrivato l’Isis. Non ci hanno lasciato neanche il tempo di prendere le nostre cose. Alcuni con la macchina e altri a piedi. La mia casa è distrutta e altre sono state bruciate. Sarà dura tornare, perché là abbiamo un sacco di nemici. Ma noi vogliamo la pace e abbiamo bisogno dell’aiuto dell’Europa perché questo accada”.

Torniamo verso Erbil che oramai è quasi buio e ci fermiamo nel campo di Basirma, ottanta chilometri a nord est dalla capitale del Kurdistan iracheno, dove vivono 3.500 rifugiati siriani. Terre des Hommes è stata una delle prime onlus a lavorare in questo campo dove si occupa di assistenza ai rifugiati, soprattutto bambini. Ci racconta Stefano Antichi, reggiano, 38 anni, project manager di Tdh: “Da otto mesi sono nel Kurdistan iracheno dove seguo progetti per i rifugiati siriani e per gli adolescenti di Social cohesion. Terre des Hommes si occupa soprattutto di protezione bambini. Abbiamo progetti per gli sfollati dalle zone irachene occupate dall’Isis e per i rifugiati siriani e degli spazi per bambini dove ci occupiamo di supporto psicologico e li facciamo giocare. Al momento stiamo ospitando gli sfollati che arrivano dai villaggi intorno a Mosul. E’ una situazione in continua evoluzione e non sappiamo cosa accadrà domani”.

Il domani, in effetti, in queste terre martoriate dalle divisioni etniche e religiose è piuttosto incerto. Tramonta il sole sul campo di Basirma. Ragazzini giocano a pallone per le strade, mentre nell’aria si diffondono gli aromi dei pasti che le donne stanno cucinando. Un bambino vuole una foto. Sorride. Sono loro il futuro dell’Iraq e della Siria. Se cresceranno rispettosi delle diversità e delle minoranze etniche, forse una speranza c’è per la pace.

(1-continua)