Birmania, Suu Kyi: “Rohingya non sono stati colpiti dalle violenze”

19 settembre 2017 | 20:45
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Birmania, Suu Kyi: “Rohingya non sono stati colpiti dalle violenze”

Onu vuole accesso illimitato. Il Premio Nobel: non temo osservatori

REGGIO EMILIA – Voleva rassicurare la comunità internazionale sull’emergenza Rohingya. Ma un discorso di Aung San Suu Kyi oggi – il primo dallo scoppio della crisi – ha ottenuto l’effetto opposto, confermando la diffusa impressione che la leader birmana sia ormai irrimediabilmente allineata alla visione nazionalista dell’esercito, e in trincea di fronte alla pioggia di critiche sulla gestione di una catastrofe umanitaria che in tre settimane ha costretto 421mila musulmani a rifugiarsi in Bangladesh.

Parlando per 29 minuti in inglese a funzionari governativi e diplomatici stranieri in un discorso trasmesso in tv, il premio Nobel per la Pace – leader di fatto del governo – ha alternato vaghe formule di preoccupazione per le sofferenze di “tutte le comunità coinvolte” dalle violenze nello stato Rakhine e condanne per le violazioni della legge. Non ha però mai menzionato il termine “Rohingya”, né ammesso abusi delle forze armate in un’area di confine dove, secondo immagini satellitari ottenute da Human Rights Watch, 214 villaggi sono stati dati alle fiamme da fine agosto.

L’intenzione dichiarata, come era scritto alle spalle di Suu Kyi, era di fare il punto degli “sforzi del governo riguardo la riconciliazione nazionale e la pace” in quella che ha definito una “democrazia giovane e fragile”. E’ sembrata più una puntigliosa difesa del suo operato, ribadendo di “non temere lo scrutinio internazionale” e dichiarando che l’area della crisi è libera da violenze già da due settimane; circostanza smentita dai pochi giornalisti stranieri a cui è stato concesso un accesso limitato sotto gli occhi dei militari.

La stessa vaga disponibilità al “rientro dei musulmani in Birmania” dopo un processo di verifica suona come parole vuote: alla gran parte degli 1,1 milioni di Rohingya nel Rakhine, considerati “immigrati bengalesi” dai birmani, l’ex dittatura militare ha negato la cittadinanza, ed è probabile che nella precipitosa fuga dalla controffensiva dell’esercito si siano perduti eventuali documenti d’identità che provino la loro residenza. Quindi, è altamente improbabile che saranno lasciati rientrare.

Dopo il discorso – apprezzato dagli ambasciatori di Russia, Cina e India in Birmania – Amnesty International ha accusato Suu Kyi di “continuare a tenere la testa nella sabbia” di fronte agli orrori del Rakhine, definendo le sue parole “poco più di un miscuglio di menzogne e biasimo delle vittime”. E l’Onu, che già mesi fa aveva accusato di “crimini contro l’umanità” l’esercito birmano in una prima e più limitata controffensiva nel Rakhine, ha subito chiesto “accesso illimitato” alla zona dell’emergenza, per valutare la situazione. Dall’assemblea generale a New York, il segretario Antonio Guterres oggi ha chiesto alle autorità birmane di “porre fine alle operazioni militari, di permettere l’accesso umanitario e affrontare le afflizioni dei Rohingya”.

Tuttavia, già alcuni mesi fa la Birmania aveva negato il visto agli ispettori delle Nazioni Unite intenzionati a recarsi nel Rakhine. E a inizio settembre il governo birmano ha implicitamente accusato le organizzazioni umanitarie nella zona di aver favorito i “terroristi”. In generale, è chiaro come Suu Kyi e l’esercito birmano – che l’ha tenuta agli arresti domiciliari per 15 anni quando era una dissidente – la vedano ormai allo stesso modo sulla necessità di combattere il pericolo di una radicalizzazione tra i musulmani nel Rakhine dopo gli attacchi coordinati del 25 agosto (con 12 morti tra agenti e soldati) da parte dell'”Esercito Arakan di salvezza dei Rohingya”, formato da militanti addestrati all’estero.

La popolazione birmana, in un’ondata di nazionalismo e di disprezzo verso l’Onu e i media internazionali, è compatta dietro a Suu Kyi e ai militari. Ma tra gli ex sostenitori stranieri della “Signora”, il divario tra le aspettative sull’ex paladina dei diritti umani e la realtà della Suu Kyi politica è sempre più ampio.