Aemilia, la verità degli Iaquinta: “Ingenuità, siamo innocenti”

16 maggio 2017 | 16:20
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Aemilia, la verità degli Iaquinta: “Ingenuità, siamo innocenti”

Nell’udienza di stamattina l’ex campione di calcio Vincenzo e il padre Giuseppe, hanno rispedito al mittente le accuse

REGGIO EMILIA – Si sono dichiarati innocenti fin dall’inizio e aspettavano solo l’occasione per raccontare la loro “verita’”. Nell’udienza di questa mattina del processo Aemilia contro la ‘ndrangheta – in corso per il dibattimento nel tribunale di Reggio – l’ex campione di calcio Vincenzo Iaquinta e il padre Giuseppe, hanno quindi rispedito al mittente le accuse mosse dagli inquirenti. L’ex calciatore di origine cutrese e’ imputato per detenzione abusiva di armi mentre il padre, imprenditore edile, e’ coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di associazione mafiosa.

Sono entrambi difesi dall’avvocato Carlo Taormina. In dettaglio Vincenzo Iaquinta ottiene il porto d’armi nel 2005, compra due pistole e rinnova la licenza per sette anni fino al 2012. Ma a suo padre era stato fatto divieto di detenere armi nella propria abitazione. Cosi’, quando le pistole vengono spostate a casa del padre il figlio, a cui erano intestate, non lo denuncia e finisce tra gli imputati. Iaquinta junior pero’ minimizza: “Sono stato ingenuo, come mio padre, ma siamo innocenti”. E poi racconta: “Le pistole le avevo comprate per legittima difesa. Se sei una persona famosa e stai bene economicamente, un po’ di timore ti viene. Ma le ho sempre lasciate a casa, non le ho mai portate in giro”.

Prosegue l’ex campione sportivo: “Ho preso il porto d’armi come mio padre che lo aveva da 30 anni. Non vedo perche’ non potessi farlo visto che non ho mai fatto nulla contro la legge”. Sullo spostamento delle pistole, l’imputato si difende invece: “Mio padre le ha prese a mia insaputa per metterle al sicuro, perche’ mia sorella, che era incinta, mi aveva chiesto se poteva stare a casa mia. Quando poi me l’ha riferito eravamo in una situazione familiare complicata e mi e’ passato di mente di denunciarlo”.

Ma Iaquinta ribadisce la sua buona fede: “Quando sono venuti a fare la prima perquisizione a casa di mio padre, alle tre di notte, le armi non le hanno prese. Sono tornati solo dopo due giorni”. Quindi, “se avessi avuto qualcosa da nascondere le armi le avrei portate via e invece sono stato io a dirgli che c’erano, altrimenti neanche le trovavano. L’ho fatto perche’ sono una persona onesta, come lo e’ mio padre”.

Stessa versione di Giuseppe Iaquinta: “Io il porto d’armi (che gli e’ stato revocato dopo la cena nel ristorante Antichi Sapori del marzo 2012 a cui partecipo’, ndr) lo avevo da 30 anni per difesa personale: abitavo in una casa un po’ isolata e mio figlio guadagnava molti soldi. Per proteggere lui e mia figlia sono stato ingenuo e ho fatto un guaio”. Identica anche la conclusione dell’imprenditore: “Se la mia famiglia era mafiosa, le pistole non le trovavano. Ma la mia famiglia non e’ cosi'”.

Giuseppe Iaquinta: “Ad Antichi Sapori restai poco”
La cena del marzo 2012 al ristorante Antichi Sapori? “Sono arrivato in ritardo e saro’ rimasto al massimo un quarto d’ora. E Giuseppe Pagliani non sapevo nemmeno chi era, l’ho conosciuto li'”. A dirlo e’ l’imprenditore Giuseppe Iaquinta, padre dell’ex calciatore Vincenzo, interrogato oggi a Reggio nell’udienza del processo Aemilia in cui e’ imputato. “Due mesi dopo- continua Iaquinta- mi e’ stato tolto il porto d’armi a me che sono calabrese, mentre a chi mi stava seduto accanto, che e’ un reggiano no”. L’imputato, in merito all’esclusione dellla sua azienda edile dalla white list, aggiunge: “Che sarebbe avvenuto me lo disse un giornalista il giorno prima. Io controllai con il mio commercialista ed era tutto a posto”.

Lo sfogo di Vincenzo: “E’ una tortura, non so perché sono qui”
C’e’ stato anche un momento concitato, questa mattina nel tribunale di Reggio, dove nell’aula del processo Aemilia e’ stato interrogato come imputato l’ex campione di calcio Vincenzo Iaquinta. Che in un passaggio si e’ lasciato prendere dall’emozione e si e’ sfogato dicendo: “Non vedo il motivo per cui sono qua in un processo di ‘ndrangheta con cui non c’entro niente. E’ una tortura ogni giorno per me e la mia famiglia”. Poi rivolto alla Corte ha aggiunto: “Non ce la faccio piu’. Rispondo alle domande ma sono domande che non hanno senso, assurde”. Il presidente del collegio giudicante Francesco Maria Caruso ha proposto all’imputato di interrompere per qualche minuto per calmarsi – Iaquinta ha rifiutato – per poi pero’ ammonirlo: “Questo e’ un esame – ha detto Caruso – non e’ fatto per sfogarsi. Se vuole in seguito potra’ rilasciare dichiarazioni spontanee”.

Vincenzo Iaquinta: “La foto con la Tattini? Falsa”
Mai conosciuta la a consulente fiscale bolognese Roberta Tattini. E la foto sul cellulare della donna, che la ritrae insieme all’ex calciatore, sarebbe “un fotomontaggio” usato per una “strumentalizzazione”. Cosi’ si difende oggi in aula Vincenzo Iaquinta, imputato nel processo Aemilia contro la ‘ndrangheta in corso a Reggio, dalle accuse sui suoi presunti rapporti con il clan cutrese Grandi Aracri.

L’episodio sui cui l’ex campione viene sentito e’ quella di un incontro avvenuto il 19 giugno 2011 in un bar di Gualtieri (Reggio Emilia) con Tattini, accusata di concorso esterno in associazione mafiosa. Dalle intercettazioni della Dda risulterebbe che l’appuntamento sarebbe stato organizzato per lo scambio di un pacco milionario di soldi. Ma Iaquinta si smarca: “Non ho mai conosciuto ne’ sentito Tattini, anche se e’ vero che quando facevo il calciatore scattavo foto con chiunque senza sapere nemmeno chi sono”. Su un punto pero’ l’imputato e’ sicuro: la fotografia esibita dalla Corte di lui con la donna e’ un falso. Nello scatto infatti il calciatore e’ vestito con sandali pantaloncini e maglietta a maniche corte.

“Ma io – dice Iaquinta juinior – al bar non ci vado vestito cosi'”. Tanto piu’ che quel giorno era di ritorno da un matrimonio, con indosso ben altri vestiti. Sui sandali l’imputato fa poi notare: “Li ho comprati nel 2014 e non potevo quindi indossarli”. E infine sbotta: “Io e mio padre siamo innocenti. Guadagnavo 3 milioni di euro l’anno: non avevo certo bisogno dei soldi della ‘ndrangheta”. Interrogato sulla vicenda Iaquinta padre taglia invece corto: “Non ho mai avuto a che fare con Roberta Tattini. I miei affari li ho sempre fatti da solo in modo pulito e corretto” (Fonte Dire).