Aemilia, così “la ‘ndrangheta ha rotto gli argini” nella nostra terra

13 ottobre 2016 | 09:45
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Aemilia, così “la ‘ndrangheta ha rotto gli argini” nella nostra terra

Le motivazioni delle condanne nel giudizio abbreviato di aprile: “Manca un capo supremo e c’è una totale autonomia dalla cosca calabrese”

REGGIO EMILIA – “Nell’indagine Aemilia si assiste alla rottura degli argini” da parte della criminalità calabrese in Emilia dove “la congrega è vista entrare in contatto con il ceto artigianale e imprenditoriale reggiano, secondo una strategia di infiltrazione che muove spesso dall’attività di recupero di crediti inesigibili per arrivare a vere e proprie attività predatorie di complessi produttivi fino a cercare punti di contatto e di rappresentanza mediatico-istituzionale”. E’ questo, secondo il Gup Francesca Zavaglia, il salto di qualità dell’inchiesta sulla ‘Ndrangheta della Dda di Bologna.

Lo si legge in uno dei passaggi chiave delle 1.390 pagine della sentenza del processo concluso ad aprile con 58 condanne in abbreviato, 17 patteggiamenti, 12 assoluzioni e un proscioglimento per prescrizione. Dato caratterizzante è proprio “la fuoriuscita dai confini di una microsocietà calabrese insediata in Emilia, all’interno della quale si giocava quasi del tutto la partita, sia quanto agli oppressori che alle vittime”.

Il giudice Zavaglia parla, nelle motivazioni della sentenza, esplicitamente di “salto di qualità” della ‘ndrangheta, con la “la fuoriuscita dai confini di una micro-società calabrese insediata in Emilia, all’interno della quale si giocava quasi del tutto la partita, sia quanto agli oppressori che alle vittime”. Ora invece, anche in una regione una volta immune, si è “prodotto un ambiente globale, fatto di cutresi ed emiliani, nel quale la modalità mafiosa viene oramai apprezzata in tutta la sua carica”.

L’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Bologna ha portato alla luce un sistema, capace di influenzare l’economia, “generando un serio pregiudizio alla libera concorrenza”, in particolare nell’edilizia e nei trasporti. Si legge nella sentenza: “Il centro di potere imprenditoriale mafioso creato in Emilia è strumento a disposizione della cosca locale per generare e moltiplicare ricchezza e allo stesso tempo, funzionale agli interessi del boss Nicolino Grande Aracri”.

Scrive il Gup: “La cellula di ‘ndrangheta ha accantonato alcune suggestive tradizioni in favore della agilità e del pragmatismo assai più funzionali al raggiungimento del profitto criminale”. Nessun rituale dunque e incontri solo in luoghi anonimi come bar, ristoranti: anche perché “un bar può offrire maggiore confondibilità e riservatezza (certamente rendendo più difficoltoso l’ascolto da parte degli inquirenti) rispetto a una cascina abbandonata”, così ricorrente nell’immaginario mafioso.

Manca inoltre un “capo supremo”, ma a guidare il tutto è “un organismo direttivo formato dai soggetti che godono di rispetto e considerazione da parte degli associati” nonché da parte dello stesso Nicolino Grande Aracri (condannato anche lui nell’ambito di Aemilia a 6 anni e 8 mesi per diversi reati, ma non per associazione mafiosa). Tre sono i nomi di spicco per il giudice: a Reggio c’è Nicolino Sarcone (condannato a 15 anni), nella Bassa Reggiana Alfonso Diletto (14 anni e due mesi), sul piacentino cremonese Francesco Lamanna (a 12 anni). Almeno per un certo periodo inoltre, si legge nella sentenza, tra i capi-promotori ci furono anche Antonio Gualtieri (condannato a 12 anni) e Romolo Villirillo (12 anni e due mesi).

L’autonomia della cosca emiliana nei confronti della cosca calabrese è totale, scrive il giudice: “finanziaria, decisionale e operativa”. Tuttavia il rapporto con Grande Aracri ha un “carattere vitale” e spesso gli affiliati fanno riferimento alla cosca madre “al fine di accrescere la propria capacità di intimidazione”.

Le motivazioni della sentenza riguardano anche due politici coinvolti nell’inchiesta. Giuseppe Pagliani, capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale, è stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per non avere commesso il fatto. Giovanni Paolo Bernini, ex presidente del consiglio comunale ed ex assessore a Parma, è stato invece prosciolto per prescrizione dopo che il suo reato è stato declassato da concorso esterno a corruzione elettorale.

Per quel che riguarda Pagliani, secondo il gup, non c’è concorso esterno perché non esiste alcuna prova del presunto contribuito da parte di Giuseppe Pagliani a beneficio del clan. Il capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale, pur essendo stato avvicinato nel 2012 da esponenti della cosca del calibro di Nicolino Sarcone – che lo voleva “usare” come canale pubblico per contrastare i provvedimenti antimafia dell’allora prefetto Antonella De Miro (in cambio di un appoggio elettorale, ndr) – non ha portato a termine quanto chiesto inizialmente dal clan. Ha prestato, secondo il giudice, “l’iniziale piena e consapevole adesione al progetto propostogli da Nicolino Sarcone, salvo poi defilarsi, forse anche impaurirsi, al verificarsi di una inaspettata evoluzione degli eventi”.

A spingere Pagliani a questa decisione, secondo il giudice, è l’emissione nel luglio 2012 da parte del prefetto De Miro di decreti interdittivi che vietano la detenzione e il porto d’armi ad Alfonso Paolini, Pasquale Brescia, Antonio Muto e Giuseppe Iaquinta. Con alcuni di loro, tra i protagonisti della famosa cena del 21 marzo 2012 al ristorante Antichi Sapori, Pagliani aveva intessuto rapporti.